Teatro
Romaeuropa Festival e le possibilità dello sguardo
C’è un coraggio e una consapevolezza davvero notevole alla base di una scelta artistica. Non si tratta di fare i soliti bandi, quella finta democrazia per cui va tutto bene. No, si tratta di decidere, di assumersi la responsabilità di quel che si vuole proporre. In questo caso, la scelta notevole è quella del Romaeuropa Festival di aprire l’edizione 2018 con Kirina, un’opera del giovane Serge-Aimé Coulibaly su musiche della bravissima Rokia Traoré e libretto di Felwine Sarr (già autore di un fondamentale saggio economico, dal titolo Afrotopia).
È una decisione radicale e indicativa: vista la qualità sempre eccellente cui ci ha abituato il REF, sono certo avrebbero potuto invitare qualsiasi “eventone” al mondo per l’inaugurazione. Invece, il direttore artistico Fabrizio Grifasi e la presidente Monique Veaute hanno optato per un lavoro indubbiamente meno noto, ma direi essenziale. Essenziale perché finalmente pone al centro della nostra scena la creazione contemporanea che viene dall’africa subsahariana francofona, quella vasta area tra Mali, Guinea, Costa d’Avorio e Senegal.
La storia evoca la fondazione dell’impero mandingo, e Kirina è il nome, leggendario, di una mitica o forse inesistente città.
Quel che preme, però, in questo caso non è tanto il plot, che pure vanta bei momenti poetici, quanto, piuttosto, un ragionamento da fare sul nostro – di noi spettatori italiani – rapporto con l’arte africana: quel misto di supponenza e superiorità, di diffidenza e incomprensione, di bisogno di catalogare e inquadrare tutto nella prospettiva dell’esotico, di rinverdire – pur non volendo – stereotipi e sovrastrutture ideologiche (anche positive).
Allora il segnale dato da Romaeuropa diventa doppiamente indicativo. Fa conoscere un nuovo artista, cresciuto nella fucina di Alain Platel e di Les Ballets C. de la B. e che certo maturerà, ma non solo. Inverte infatti la tendenza, ormai diffusa e infausta, di rapportarsi sempre e solo in un certo modo alla cultura e all’arte africana – che poi già dire “africana” significa tutto e niente: come dire “arte europea” o “arte asiatica”: ci sarà differenza tra un testo islandese e uno greco? Tra una musica turca e una coreana?
Insomma, nel nostro tempo confuso, ormai “raccontiamo” l’Africa solo o quasi nella mediazione cronachistica della migrazione. Certo è un tema rilevante, che pure fa da cardine anche all’opera di Coulibaly, Sarr e Traoré, ma da noi diventa la messa in scena dell’immigrato solo ed esclusivamente in quanto “immigrato”, in quanto portatore di un problema e non di una cultura, di crimini e non di tradizioni, di dolori e non di gioie. Con buona pace di Wole Soyinka, Athol Fugard, Can Themba, di Femi Osofisan o di Hamadou Hampaté Ba (tanto per citare i primi che mi vengono in mente)
Allora Kirina, visto al Teatro Argentina di Roma, è una possibilità di attivare uno sguardo altro. Di confrontarsi con un lavoro in termini serenamente critici, senza buonismi, consensi preventivi o tantomeno razzismi posticci di chi ha paura di “essere invaso”.
Ecco cosa può fare il teatro: abbattere le barriere, creare ponti, investigare oltre le censure e le chiusure. Rischiare. Magari alcuni saranno rimasti un po’ delusi, altri sin troppo entusiasti, ma di fatto il pigro pubblico romano ha avuto il modo di confrontarsi con l’Altro, con quell’Altro che è il “corebusiness” del nostro ministro degli interni, e non nella dimensione della rivendicazione politica, ma nella pratica artistica e creativa. Dunque lo spettacolo si apre a un tentativo intrigante di contaminazioni: linguistiche, estetiche, musicali. Già questo è un elemento su cui riflettere: quanto c’è di francese o di belga nel “gusto” dell’opera?
Ma ecco, subito, un quartetto live che dà il tessuto sonoro, che evoca non solo il blues maliano caro ad Ali Farka Touré ma anche le vertigini ritmiche che possono rimandare alla leggendaria Baobab Orchestra. con due fantastiche cantanti, le regali e presentissime Naba Aminata Traoré e Marie Virginie Dembélé.
Poi il racconto si apre alla storia di un popolo, o forse di molti popoli che si muovono, che si incontrano, si mescolano. La storia procede per quadri, capitoli di un’epopea che intreccia momenti epici ad altri più intimi, passando di tempo in tempo, da un passato primigenio al presente possibile, dal rito al mito, con squarci narrativi e lirici che si contrappongono o introducono o commentano altri più fisici e simbolici. Non tutto fila al meglio, ci sono cali di tensione e qualche banalità coreografica. Non abbiamo a che fare con un capolavoro, eppure sono curiosi alcuni guizzi, alcuni momenti di bella libertà compositiva, come mettere assieme parate bauschiane e lenti gruppi tribali, disinvolti assoli plateliani e vigorose scene di lotta.
Il racconto evoca gesta eroiche ma si chiude in un pessimismo toccante, in storie impregnate di morte, con cadaveri sparsi ovunque, e infine con la violenta conquista del palcoscenico di un uomo animale violento, che sputa e sbava e mostra i muscoli. Avanza, questa creatura selvaggia, fino al limite del proscenio, minaccioso, inquietante. Se fosse sceso in platea – come accadeva nel film The square di Ruben Östlund quando il performer interpretato da Terry Notary sconvolge una cena di beneficienza – ebbene dicevo se fosse sceso in platea, avrebbe messo in crisi davvero tutti i nostri cliché, avrebbe snidato le nostre paure: e un attimo, lunghissimo, di condivisa inquietudine l’abbiamo avuto. Avrebbe fatto saltare il banco della convenzione. Invece sparirà nel buio, mentre sul fondo l’umanità si rimette in cammino. Lenta, mesta, inesorabile.
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