Teatro

Roma, Teatro Palladium: Medea di Seneca

3 Marzo 2018

Occidimus, aures pepulit hymenaeus meas.

Vix ipsa tantum, vix adhuc credo malum,

Sono finita. L’imeneo percosse le mie orecchie.

A stento così grande, a stento ancora credo il male.

Così parla Medea, nella tragedia di Seneca, quando ha appena ascoltato gli imenei, i canti delle nozze tra Giàsone e Creusa, la figlia del re di Corinto, Creonte. Ed è da questa percezione sonora della propria esclusione dal mondo in cui si è rifugiato il suo amante, che nasce dentro di lei il desiderio di vendicarsi con una male ancora più grande, che ferisca con un dolore più grande chi l’ha ferita con un dolore insopportabile: la solitudine. La tragedia di Seneca, più che il dramma di una donna rifiutata, come in Euripide, è l’emergere alla coscienza di Medea del suo desiderio di fare agli altri un male maggiore di quello subito. Il percorso psicologico è magistralmente tratteggiato, passo passo, con una lucidità che fa invidia alle pagine più attente di Freud. Lo dice bene Walter Pagliaro, il regista dello spettacolo, nelle note di regia: “Tutto ciò che in Euripide è concreto, familiare, realistico, in Seneca è totalmente mentale”.

E’ una discesa negli abissi della coscienza, nel sottosuolo oscuro degli impulsi primordiali che albergano la mente di ciascuno, nel groviglio di odio e di amore che si scambiano le parti, che si specchiano l’uno nell’altro, nel delirio di possesso e di onnipotenza che scatena ogni volta un amore ferito. Lo dice bene Medea: “Si quaeris odio, misera, quem situas modum, / imitare amore.” Se cerchi che misura tu possa stabilire per l’odio, imita l’amore”. Ha già, in effetti, compiuto delitti, e compiuti per amore, come grida in faccia a Giàsone: ha ucciso il fratello, fatto a pezzi il suo corpo, per ritardare l’inseguimento del padre. Ora compirà delitti ancira più efferati per odio. Ora deve perciò trovare un delitto che corrisponda all’offesa dell’abbandono di Giàsone. Colpire dove l’amante che l’abbandona più soffre: l’amore dei figli, e perciò non glieli fa vedere morti, glieli uccide davanti agli occhi. Uno basta, implora sfinito l’amante. “Si posset una caede satiari haec manus, / nullam petisset”. Se potesse saziarsi di una sola uccisione questa mano, non ne avrebbe tentato nessuna”.

Seneca è più lucido dei troppi mediocri e pavidi cronisti attuali, che non trovano spiegazione per certi delitti: la spiegazione è lo stesso conflitto dei rapporti umani. Inutile invocare la pazzia, o chi sa quale innata malvagità criminale dell’assassino e dell’assassina. Magari, come Medea, è una straniera, un’immigrata. Quale altra ragione cercare se non la sua barbarie. Seneca si beffa di questi mediocrissimi psicologi. Il delitto può essere commesso da chiunque, di qualunque paese. Il delitto nasce all’interno stesso dei rapporti umani. Il confine tra l’amore e l’odio è sottile, quasi inesistente, come sa chiunque abbia anche solo un’infarinatura di psicologia e come Seneca, ma prima di lui anche Ovidio, anche Euripide, anche Eschilo, sanno molto bene. La solita obiezione: ma era gente così per bene, così normale! E dove si pensa che possa nascere il delitto? Nei manicomi? Nasce nella casa simile alla nostra che abitiamo tutti. La cronaca ce lo sbatte sotto gli occhi tutti i giorni.

Walter Pagliaro ha portato sulla scena dell’Olimpico di Vicenza questa Medea di Seneca. Ora la rappresenta al Teatro Palladio di Roma, per la stagione teatrale dell’Università di Roma Tre. La rappresenta in una forma prosciugata. Senza scene, senza costumi, quasi come un oratorio. Gli attori parlano davanti a un leggio vuoto, come se recitassero una partitura. E la tragedia senecana è una sorta di partitura. La sua modernità spiega come mai proprio il teatro di Seneca – e non quello di Eschilo, di Euripide – sia stato visto, nel Cinquecento, come modello per il teatro moderno. Checché ne dicano ancora troppi nostalgici dell’idealismo crociano, che immaginano le tragedie di Seneca come testi puramente letterari. Non lo sono, anche se, probabilmente, Seneca stesso le destinava alla sola lettura.

Ma sta proprio qui la loro efficacia teatrale, anzi la loro teatralissima costruzione: che adottando la struttura della tragedia ateniese, costruisca poi alla fine un teatro intellettuale, mentale, un teatro che scava profondamente nell’inesplorato orrore delle coscienze. Non diversamente si era comportato Ovidio, ripensando filosoficanebte il mito greco nelle Metamorofsi, poema che non ha più nulla del poema eroico, ma è un sorta d’interpretazione poetica e mentale dell’universale evoluzione delle cose. Alla base, innominato, perché innominabile, empio, Lucrezio, e il suo poema sulla natura delle cose, sulla realtà di questa terra e degli astri, come unica realtà, unica materia esistente. E le passioni solo movimento di atomi. Oggi diremmo azioni determinate dal sistema cerebrale e nervoso. In qualche modo Lucrezio, come poi Seneca, fa a meno degli dei: la realtà sta tutta nella materia di cui è costituito il mondo. Un popolo osservante delle tradizioni come era quello Romano non poteva non scandalizzarsi per una simile impostazione di pensiero. Di fatto, sia Luctrezio, sia Seneca, scandalizzano anche il lettore e il pubblico di oggi. Seneca non solo, dunque, è teatro, ma grande teatro. Shakespeare ne sa qualcosa, il più fedele, e anche il più grande alunno di Seneca.

Così nudamente affidata alla sola recitazione, la tragedia di Seneca giganteggia come una sorta di vivisezione del cervello, che scoperchia e mostra le viscere degli spettatori. La sola parola – da sé – costruisce il teatro. Micaela Esdra, Medea, vi affonda dentro come in una materia fluida che prende vita via via che avanza verso la catastrofe. La voce si fa strumento duttile della materia sonora, il linguaggio, strumento inflessibile, spietato, dell’inespresso, dell’inconfessabile, che proprio per merito suo si fa espressione, confessione, denuncia. Dal gorgoglio rauco all’urlo, dal sussurro alla carezza melodiosa, dalla freddezza raziocinante alla visionarietà allucinata. La fisarmonica di Denis Negroponte suona le musiche di Germano Mazzocchetti. Arieggiano un po’ la melopea del cantastorie. E’ l’unica concessione al racconto mitico che, forse, si concede lo spettacolo. Il coro – che in Seneca non è più personaggio, ma già commentatore della vicenda, come sarà, le poche volte che ne fa uso, anche in Shakespeare – è impersonato da due attori: Frabrizio Amicucci e Michele Ferlito. Riccardo Zini presta nobilmente la propria voce alla figura insieme spietata e dolente di Creonte. Lo stesso Walter Pagliaro, che sostittuisce Blas Roca Ray, indisposto, impersona Giàsone.

Va elogiata la scelta di pronunciare i nomi greci secondo l’accentazione latina. La tragedia è scritta in latino. E almeno l’accentazione latina dei nomi greci ne restituisce il colore linguistico: e dunque – bravi! – Giàsone e non Giasòne. L’eroe che guida gli Argonauti e rapisce il Vello d’oro, però, non ha qui più niente di eroico, è uno sconfitto, un uomo fragile, demolito dai delitti di Medea. Implora invano clemenza. Dimenticando che la reazione di Medea è puramente logica: all’inclemenza dell’abbandono Medea risponde con l’inclemenza dei delitti. Aveva compiuto delitti per amore, compie delitti per appagare l’odio. Si esce frastornati. La grande poesia, e il grande teatro, hanno questa virtù: che cambiano il tuo sguardo sulle cose, scopri nella realtà che credevi di conoscere, una verità che prima t’era sconosciuta. Il crimine non è l’atto di un criminale, chiunque può compierlo, se si realizzano le situazioni che lo favoriscano. Il criminale è criminale perché ha compiuto un crimine, non è criminale perché predisposto a compierlo. C’è qui già tutta la materia del Riccardo III e del Macbeth.

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