Teatro
Roma e l’Orestea “incompiuta” di Castellucci
Io sto con il macaco. Con la sua (la loro: erano un gruppetto) impossibilità di andare in scena.
La faccenda è già rimbalzata su qualche giornale. A distanza di circa venti anni, il regista Romeo Castellucci ha ripreso la celebre versione di Orestea di Eschilo firmata con la Socìetas Raffaello Sanzio.
Uno spettacolo che fece storia, che cambiò il corso del teatro italiano e non solo. La visionarietà aspra e cupa, la lettura filologicamente aderente e sovversiva – il testo originale è interpolato con Alice nel Paese delle meraviglie di Carroll con tanto di bianconiglio-corifeo – il codice interpretativo fisico e a tratti violento, fecero dell’Orestea una pietra miliare degli anni Novanta: per noi che c’eravamo, resta ancora viva la sensazione di stupore, di meraviglia, di paura, di tensione…
Riprenderlo, solo con poche modifiche, è stato un gesto di coraggio e di acuta riflessione sullo stato del teatro. Lo spettacolo – creato allora da un gruppo di trentenni o poco più – mostra ancora le stimmate del capolavoro. Mantiene intatte le caratteristiche di un allestimento coraggiosissimo, che innerva il classico greco di un’energia destabilizzante, addirittura incandescente: in un momento il palcoscenico è scosso da un vero e proprio terremoto che tutto e tutti travolge.
Nel frattempo, Romeo Castellucci è maturato, ha scoperto altre visioni e altre possibilità del teatro – non da ultimo una narrazione che sta conquistando prepotente i suoi spettacoli – ma quell’Orestea fu uno shock benefico e forse salvifico per la scena italiana e europea che giustamente va rivendicato e riproposto.
Come si sa, Orestea – unica trilogia sopravvissuta dal V secolo avanti Cristo – è composta da Agamennone, Coefore e Eumenidi. Tre capitoli, tre tragedie diverse che danno vita al progetto drammaturgico di Eschilo. La trilogia è stata interpretata, nel tempo, in mille modi diversi: Peter Stein ne fece una riflessione sulla Germania postbellica; Luca Ronconi una memorabile e interminabile versione “da camera”; Pier Paolo Pasolini negli anni Sessanta, la tradusse in chiave civile e politica focalizzandosi sul processo di evoluzione dalla vendetta personale al giudizio dell’Aeropago; mentre più recentemente Sue-Ellen Case ha letto l’Orestea, e le Eumenidi in particolare, come passaggio dal matriarcato al patriarcato, celebrato formalmente nell’assoluzione di Oreste. E molto è stato scritto e detto anche sulla interpretazione dell’Orestea di Castellucci: dunque inutile ri-recensirla oggi.
Ma, date simili premesse, si può immaginare, l’attesa che c’era per l’arrivo dello spettacolo nella Capitale, nell’ambito del prezioso cartellone del Romaeuropa Festival 2016.
Solo che qualcosa è andato storto: e c’entrano i macachi.
Nel 1996, Romeo Castellucci aveva scelto di far interpretare le Erinni, protagoniste di Eumenidi, dal gruppo di macachi urlanti, chiusi in gabbie protette. Una visione apocalittica, fortissima, ovviamente da riproporre anche in questa nuova edizione.
Però, la sera della prima al teatro Argentina, a pochi secondi dall’inizio, il regista è uscito di quinta e ha letto uno stringato comunicato in cui annunciava che la terza parte non sarebbe andata in scena per mancanza delle necessarie autorizzazioni alla presenza di animali in scena.
Nello spettacolo ci sono anche due cavalli e un’asina, ma i macachi non avrebbero potuto “calcare” il palcoscenico del teatro capitolino.
Si può immaginare la delusione del pubblico.
Lo spettacolo, che nei primi due atti, è meraviglioso, nella versione “mozza” lascia un senso di innegabile incompiutezza. Si avverte il mancato compimento, l’impossibilità di una soluzione: è un respiro mozzato, un coito interrotto.
Ci sono responsabilità? Si poteva sapere prima?
Il Romaeuropa Festival è una macchina organizzativa impeccabile e rodata da lunga esperienza, dunque possiamo pensare che le autorizzazioni – richieste con largo anticipo – non siano arrivate per latenza di chi doveva rispondere.
È vero che dal 1996 a oggi le leggi si sono fatte più severe, che è cambiata la sensibilità per quel che riguarda la presenza di animali in scena, che i controlli sono più serrati, ma questo basta per amputare uno spettacolo?
Togliere l’epilogo al trittico è come, che ne so, togliere il Martirio di San Matteo alla Cappella Contarelli, oppure il Ritorno dalla Villeggiatura a Goldoni, o ancora l’ultimo capitolo al Millennium di Stieg Larsson o il peperoncino all’aglio e olio. Non è possibile, no?
Le Eumenidi, insomma, sono parte fondamentale alla comprensione della trilogia: è il tribunale che risolve, che cementa, che dà senso alla convivenza assolvendo il matricida Oreste e istallando un nuovo ordine, forse più equilibrato, certo meno violento.
Al di là dell’episodio – come detto è comunque gratificante vedere Agamennone e Coefore – restano tante riflessioni da fare. Vorrei dare un valore a quanto accaduto: mi sembra simbolico, infatti, che l’incompiuta sia tutta romana. Orestea di Castellucci, in questa nuova edizione, ha già girato in altri paesi europei senza troppe difficoltà. Ma a Roma no.
In questa città sfranta, abbandonata, in mano a palazzinari, arrivisti e opportunisti, il cavillo burocratico interviene a bloccare uno spettacolo.
A Roma la giustizia di Atena e dell’Aeropago non è data: Oreste è in attesa di giudizio. A Roma si riverbera il regno della relazione, che vince in nome di una giustizia paradossale e borbonica – capace di far morire di epilessia e condannare il furto di mele.
L’iniquità, dunque, dalle piccole alle grandi cose: la sopraffazione e la rivalsa individuale sono ormai diffuse e incontrastate, accettate e addirittura introiettate.
Uno spettacolo va in scena monco: già vedo che in molti alzeranno le spalle a dire “e chi se ne frega”, con un’eco fascista che inquieta. Il “me ne frego” è ancora – purtroppo – lo slogan di questo paese allo sbando.
Al Romaeuropa Festival si sono assunti la responsabilità dell’accaduto: correttamente e professionalmente hanno rimborsato il biglietto a chiunque ne facesse domanda. Sono certo, però, che in pochi abbiano chiesto indietro i soldi: Orestea, anche per i suoi 2/3 è un grandissimo spettacolo. Sul terzo rimanente, però, mi pare – anche a rischio di sembrare eccessivo – che si giochi la faccia di Roma.
Restiamo a metà, nella capitale dell’incompiuto, del non risolto, del casuale e dell’estemporaneo. Siamo davvero “rassegnati a tutto”, come si chiedeva Flaiano? Qui sembra sempre che stia per succedere qualcosa, e invece mille idee disperse, mille progetti irrealizzati, mille discorsi iniziati e non finiti. E per quel che riguarda il macaco, poi, voglio aggiungere un’ultima riflessione, assolutamente importante:
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