Teatro
Rijeka-Fiume: la città capitale della cultura e il teatro italiano
È una strana, affascinante città, Rijeka.
Sarà Capitale della Cultura nel 2020, raccogliendo il testimone da Matera, e già si prepara ad affrontare questa sfida. Aggrappata al suo porto, circondata da eleganti colline dove però troneggiano i grattacieli del realismo socialista, Rijeka-Fiume conta sul suo piccolo elegante centro, sui tanti caffè sempre animati, e su quel fiume che l’attraversa e che era un tempo confine di stato.
Ha una storia recente impastata di traumi e di vittorie, di rivendicazioni e frustrazioni: una storia che si riflette nella grande storia Jugoslava ma che a Fiume, come è noto, rimanda anche a passate questioni complesse con l’Italia.
A Rijeka, all’interno del bel Teatro Nazionale “Ivan de Zajc”, ha sede anche il Dramma Italiano. Ci siamo arrivati per vedere uno spettacolo scritto da un giovane dramaturg italiano (Fabrizio Sinisi: lo avevamo incontrato qui) con un regista italiano (Gianpiero Borgia) e dedicato a Gabriele D’Annunzio, ovvero un Caberet D’Annunzio, titolo con non poca ironia, che mette al centro della narrazione anche la vorticosa e contraddittoria “reggenza” dannunziana di Fiume.
Ma dello spettacolo (già recensito da Tommaso Chimenti qui) ne parleremo domani. Intanto ho pensato fosse opportuno, e forse interessante per il mio manipolo di lettori, incontrare e intervistare Rosanna Bubola, giovane e volitiva attrice chiamata da pochi mesi alla direzione del Dramma Italiano e chiederle, come prima domanda, di spiegare proprio cosa sia e come funzioni questo enclave teatrale italiano in Croazia.
«Il Dramma Italiano è uno dei gruppi fondatori del Teatro Nazionale “Ivan de Zajc”di Rijeka, che è sede della compagnia teatrale croata e del teatro d’opera con la sua orchestra e coro. Il Dramma è nato nel 1946, abbiamo appena festeggiato i 70 anni di vita. E può sembrare assurdo, ma è la compagnia italiana professionista più longeva d’Italia: solo che non siamo in Italia! Il Dramma ha visto la luce un anno prima del Piccolo di Milano e, tra l’altro, si narra che dovesse essere proprio Giorgio Strehler il primo direttore. Poi rinunciò, per sfortuna nostra ma con grande fortuna di tutti, visto che ha fondato il Piccolo Teatro».
Il Teatro Nazionale, nel suo insieme, ha in organico oltre 120 assunti (tra orchestra e coro) e vanta dalle 3 alle 5 produzioni d’opera a stagione. Come vive, invece, il Dramma Italiano?
«A livello economico, sopravvive grazie a un finanziamento del MAE, il Ministero Affari Esteri italiano, e grazie al sostegno dell’organo di minoranza della Croazia e della Slovenia. A questo si aggiunge un contributo della Regione Istriana. Abbiamo dunque finanziamenti che si diversificano da quelli centrali del Teatro Nazionale, di cui pure siamo parte integrante».
Organico?
«Non siamo tanti: nove attori, più direttrice e segretaria. Io sono di fresca nomina, in carica appena dal 24 novembre scorso. Mi sono trovata con una struttura dalle grandi potenzialità, che può ancora crescere. E mi sono trovata un programma già fatto su cui, per alcuni aspetti, non concordo. Secondo me il Dramma Italiano deve uscire dai giri e circuiti abituali, anche perché lo merita: dobbiamo puntare a fare spettacoli più leggeri, anche in termini di trasportabilità. Invece, accade che quando un regista arriva al Nazionale trova ottimi laboratori di scenografia e costumi, e cade nella tentazione di inventare spettacoli a dir poco monumentali. Ottimi lavori, per carità, ma che non possono muoversi se non hai cinque tir. Poi, dal punto di vista autorale, sto cercando di togliere un “veto” che esisteva da qualche tempo e ci obbligava a mettere in scena esclusivamente testi italiani, oppure croati, o della ex Jugoslavia, tradotti in italiano. Penso, invece, che anche mettendo in scena Shakespeare o Ibsen o Brecht, tradotti in italiano, si possa comunque portare avanti la nostra azione di sensibilizzazione per la lingua e la cultura italiana. Mi sembra un veto ormai assurdo e molto limitativo per gli attori e per la compagnia che non può mai cimentarsi con certe opere del grande repertorio mondiale».
Cosa vuol dire “portare avanti la lingua e la cultura italiana”?
«Non è semplice. Siamo un teatro di minoranza, in una comunità che – tra Slovenia e Croazia – conta circa 35mila persone. Una comunità che è molto forte in Istria, dove è sostenuta da leggi dedicate e da uno statuto bilingue, piuttosto che in città. Della minoranza fanno parte diverse istituzioni: abbiamo come organo-capo l’Unione Italiana, che si occupa attivamente della tutela della nostra minoranza. E ci sono diverse testate giornalistiche o la Tv Capodistria in lingua italiana. Ma essere veicolo della lingua italiana vuol dire anche confrontarsi con le scuole, e essere il teatro per tutto il territorio, comprese le cittadine più piccole. Dunque, se andiamo con il nostro spettacolo “grande” al Teatro Nazionale di Fiume, dobbiamo anche essere in grado di muoverci agilmente, e andare in quelle località dove ci sono persone parlanti italiano, con proposte più leggere. Allora entriamo nelle scuole, facciamo laboratori, sia di teatro che di lingua, rivolti anche agli insegnanti. Dal 1946 abbiamo sempre cercato di tenere viva la nostra cultura. Molti anni fa, con il regime, l’italiano qui era pressoché proibito, ma il Dramma ha resistito, ha sempre fatto i suoi spettacoli e le sue tournée. E, come accade in questi casi, con una assurdità: non si poteva parlare italiano, ma eravamo finanziati meglio dal governo. La Jugoslavia dava più fondi alla cultura. Era una politica dell’ossimoro!».
Rijeka sarà Capitale della cultura 2020. Cosa cambierà, se cambiarà, in città?
«Cambia, perché ci sono progetti enormi: cose che questa città non si sarebbe mai potuta permettere senza il sostegno europeo. Spero si punti alla multiculturalità, al multilinguismo: Fiume è stata sempre un porto, aperto agli incontri e alle lingue. La città ha risposto molto bene a questa investitura. Siamo tutti gasati di diventare capitale della cultura! La Croazia è un piccolo paese, ci sentiamo anche abbastanza emarginati, poco importanti a livello europeo. Tutta la nazione ha lo stesso numero di abitanti di Roma! E un riconoscimento simile ci galvanizza. Sono felice, poi, che sarà Matera ha lasciarci il testimone. E anche il nostro teatro sarà parte in causa. Per quel che ci riguarda, pensiamo a un’idea folle: usare il relitto del Galeb, la barca che fu di Tito ed è ormeggiata in porto, in completo abbandono. Vorremmo farne la scenografia per il Cristoforo Colombo di Miroslav Krleža, forse il più grande scrittore croato. Stiamo contattando il Teatro Stabile di Genova per pensare assieme alla produzione. Per noi, Cristoforo Colombo potrebbe essere il simbolo di un progetto incentrato proprio sull’idea, il senso, la meraviglia della scoperta e dello scoprire il mondo e se stessi».
Insomma, sembrano aprirsi nuove e buone prospettive per il teatro. Si parla anche di un progetto con Paolo Magelli, considerato in tutta l’area balcanica uno dei maestri del teatro di regia…
«Sì, il prossimo anno faremo un progetto di Creative Europe, legato ai Giganti della Montagna di Pirandello, con la regia di Paolo Magelli, che ha avuto l’idea e il merito di voler unire i teatri di minoranza d’Europa. È un progetto che eredito dalla precedente direzione, ma che sposo in pieno: mettere in rete tutti i teatri di minoranza d’Europa, lavorando in più lingue, può essere un arricchimento per tutti».
Un’ultima domanda: che valore ha fare un Cabaret D’Annunzio qui a Fiume?
«Quando me lo dissero, non nascosi perplessità. Conosco bene la storia di Fiume. E qui D’Annunzio è odiato. Nessuno ne parlerà mai bene, non è ricordato come un eroe che voleva creare un territorio di libertà, anzi. È ricordato come qualcuno che ha sfasciato completamente la città. Poi, con la regia di Gianpiero Borgia, abbiamo lavorato sul testo di Sinisi, cercando di rapportare la visione che si ha di D’Annunzio in Italia e quella che se ne ha qui. Cercando, dunque, una maggiore aderenza alla realtà: se la storia la scrivono i vincitori, dobbiamo ricordare la storia dei vinti, che qui chiama in causa gli Arditi che bruciavano le case, stupravano le donne, picchiavano chi parlava croato. Forse D’annunzio nemmeno lo sapeva che accadevano simili cose, ma noi non possiamo permetterci di dimenticarlo. Siamo un teatro di minoranza, in un contesto che ha sempre condannato quei fatti: ma sta anche a noi farci carico della storia vera. In Italia in pochi sanno come andarono realmente le cose. Il punto di vista del nostro spettacolo comunque non è politico, semmai legato alla storia dell’uomo che crea il monumento di se stesso. Eppure non esitiamo a mostrare la superficialità o il menefreghismo di D’Annunzio di fronte a certi episodi storicamente accaduti. La sua è una figura sospesa sul baratro: o talmente superficiale da non capire o così genio da essere al di fuori di tutto. In entrambi i casi, una figura ambigua. E se prima del debutto c’erano critiche e perplessità, il giorno dopo abbiamo avuto tanti riscontri positivi».
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