Teatro

Rimini Protokoll e i morti che non muoiono

27 Settembre 2017

Arrivo buon ultimo a ragionare su Nachlass, l’evento presentato al teatro India di Roma dal collettivo berlinese Rimini Protokoll  grazie alla fruttuosa collaborazione tra festival Short Theatre, Romaeuropa Festival e Teatro di Roma. Dopo le belle recensioni, tutte concordi nel riconoscere importanza e valore all’opera, nelle quali mi ritrovo pienamente, restano però alcune domande irrisolte. Provo a riassumere gli elementi salienti della proposta del regista Stefan Kaegi. Il pubblico entra in una sala ovale, asettica ed elegante come una sontuosa Funeral Home: sul soffitto, una proiezione simulata del mondo, con flash che segnalano le morti, una ogni mezzo secondo, ovunque.

Una delle maggiori cause di morte è la vita, avrebbe detto Flaiano.

Si tratta di capire come si muore – ovviamente abbiamo smesso di chiederci perché. Nella struttura ovale ci sono otto porticine, sovrastate da un countdown elettronico. Allo scadere del tempo indicato, otto minuti circa (un countdown inesorabile proprio come la morte), la porta si apre, e a piccoli gruppi di spettatori possono accedere ai singoli ambienti. Ogni stanza è diversa dalle altre, corrispondendo a una persona il cui nome è scritto all’ingresso. E in ogni stanza risuonano le voci dell’uomo o della donna, che fanno i conti con la propria vita e con la propria morte.

L’ingresso in una delle stanze di Nachlass

Voci fuori campo, si direbbe. Sono testimonianze, racconti, ultime volontà, bilanci esistenziali. In una specie di microteatrino, si ascolta la storia della donne che avrebbe voluto essere cantante, e ha fatto l’impiegata: dietro il piccolo sipario, su uno sgabello, lascia un candido maglione fatto a mano. In una camera neutra, quasi d’hotel, con moquette e microtv, parla un uomo colpito da una malattia degenerativa: la passione per la pesca e per i viaggi sono al centro del suo addio alla figlia. Poi c’è la coppia di anziani tedeschi che fa i conti con la memoria del nazismo; ancora una appassionata diplomatica che lascia una fondazione in Africa; un freejumper che registra in video il suo volo (l’ultimo?); uno scienziato che spiega la demenza senile – in un gioco di specchi che moltiplica i volti degli spettatori – e rivendica la necessità di una dolce morte. E poi fotografie, dipinti, cimeli, ricordini, svegliette e tante altre cose altre ancora.

Si tratta, insomma, di far i conti con la propria morte, con il lasciare questo mondo con dignità e libertà. Tema fondamentale, che scorre sottotraccia, è l’eutanasia: il che non può che trovarci d’accordo. La battaglia da fare, almeno in Italia, è politica, non tanto etica: nel nostro belpaese cristiano cattolico siamo ancora ammorbati dalla pesante eredità di Santa Romana Chiesa, e dunque l’eutanasia è ancora oggetto di scandalo o di veto da parte di forze politiche che non osano sfidare l’autorità temporale del papato.

Basti ricordare il caso Englaro – e il bel film fatto da Marco Bellocchio – per evocare le “vibranti” proteste dei fanatici cristiani: il tema, insomma, è ancora lontano dall’essere risolto. In questa prospettiva Nachlass avrebbe potuto essere un manifesto teatrale di una presa di posizione necessaria. Lo è stato? Solo in parte.

Una delle “stanze” di Nachlass

In effetti, l’istallazione di Rimini Protokoll costringe a riflettere sulla propria fine, cerca di farlo in modo suadente, sereno, proprio attraverso quelle testimonianze.

Ma, almeno per quel che mi riguarda, il succedersi in loop delle registrazioni, l’entrare e uscire sistematico e frenetico da una stanzetta all’altra, ha suscitato qualche interrogativo. Ho avuto la sensazione, infatti, di trovarmi di fronte a un meccanismo della memoria reso pressoché automatico nella sua reiterazione: una sequela di (auto)ritratti che relegano alla registrazione eterna quel che dovrebbe o potrebbe essere l’effimero per eccellenza, ossia la sparizione e la morte. Non c’è oblio, qui: non c’è elaborazione, solo un fissare, nel modulo standard di otto minuti, il proprio bilancio esistenziale. Quasi ci si trovasse di fronte a una galleria di ritratti alla maniera di facebook, destinati paradossalmente a durare anche dopo la morte del titolare. L’effetto straniante – e forse voluto da Rimini Protokoll – è che i morituri non muoiono, che quelle parole destinate a futura memoria condensino il tutto nella parte. Insomma, in un clima tra Spoon River, A’ Livella (o di un bel film come Le invasioni barbariche di Denys Arcand), quel che manca è proprio il caro estinto: non ci sono rancori, non ci sono ripensamenti, altre possibilità. Gli otto intervistati, persone qualunque (potremmo essere noi) sanno di dover morire: e ce lo dicono.

L’eutanasia resta (almeno) come possibilità: questo non è un lavoro sulla dolcemorte, ma sulla consapevolezza della morte. Dobbiamo morire, si sa. Ma fino a qui, purtroppo, non c’è niente di nuovo.

Kaegi e soci sono superintelligenti, bravissimi, ipercontemporanei: sanno piegare gli stilemi del teatro a narrazioni del nostro tempo con grande intuizione e felicità compositiva. Nachelass non fa eccezione, è un lavoro complesso e profondo, a tratti toccante e commovente. Però ne usciamo con un senso di inadeguatezza, di incompiutezza. La cosa difficile da fare sarebbe spegnere quei “profili”, liberare quei soggetti “ancora vivi” dalla memoria computerizzata e formalizzata. Il guaio della morte, alla fine, è riuscire a andarsene.

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