Teatro
Ricordare Nicola Calipari: quando il teatro è davvero “necessario”
Spesso, attorno all’aggettivo “necessario” si è giocata tanta retorica del fare teatro. Tendenzialmente, il teatro è un fatto necessario, ma, a dirla brutalmente, il teatro è necessario soprattutto per chi lo fa. A volte, ma non sempre, anche per chi lo vede. Ma questo assunto di “necessità” può declinarsi in tanti modi. Per me, da spettatore quale sono, un teatro ha le stimmate del necessario quando è testimonianza e memoria, viva, presente. Quando è confronto, dialettica, dubbio, scomoda domanda, discorso politico che esplode in scena e si riverbera in platea. Allora il pubblico viene investito, coinvolto (ben oltre ogni moda della “formazione” dello spettatore) in una discussione, in una dialettica democratica, e non in qualche affermazione, per quanto alta, altissima questa possa essere. Ci sono spettacoli che sono dunque domande ben poste. Domande che spiazzano, magari lievi come un sorriso eppure inesorabili. C’è da farci i conti, eccome.
Allora, poco prima di Natale, mi era capitato di entrare in una affollata pomeridiana, al Teatro Argentina di Roma. “Scolaresche – ho subito pensato – aiuto!” temendo le reazioni scomposte di classi propense più alla distrazione che non all’ascolto. Invece, il mio pregiudizio è stato smentito. Sono bastate due battute: la sala è piombata in un silenzio assorto, partecipe, attento. L’occasione è Il viaggio di Nicola Calipari, lavoro di Fabrizio Coniglio anche in scena con Alessia Giuliani. Chi se lo ricorda, Calipari? E Giuliana Sgrena la giornalista del Manifesto che fu rapita in Iraq? E chi si ricorda della guerra in Iraq, di Saddam, del perché gli americani, tra cui il soldato Mario Lozano, quello che fece fuoco con la mitragliatrice, erano a Bagdad?
Già, chi si ricorda più nulla, di quella guerra, di quei fatti, di quell’eroe serio e appartato, funzionario di polizia dalla carriera adamantina, che cadde ucciso al check point americano? E il dolore, le polemiche non solo con gli Stati Uniti ma anche in Italia e poi le ricostruzioni, le inchieste, i processi, gli insulti che ne seguirono. La questione di quel rapimento iracheno, le trattative segrete ma non troppo, la liberazione sono tracce sedimentate in una memoria collettiva confusa, oberata da altre notizie, da altre violenze, da altre guerre, da altri morti. Eppure quella fu una questione emblematica, importante.
Fabrizio Coniglio e Alessia Giuliani sono bravissimi, sembra non facciano nulla e fanno tutto. Evocano, interpretano, incarnano, alludono, spostano, narrano: ricostruiscono la vicenda senza la pedanteria di certo teatro d narrazione. Danno da pensare senza mai risultare tendenziosi. Fanno insomma, il necessario, per non dimenticare, per riportare all’oggi vite passate, con valori che si stanno sempre più perdendo. Il senso dello Stato, di chi fa servizio per e nello Stato, senza fanatismi o fascismi come usa ora, con quegli slogan da squadrismo nero deplorevoli e squalificanti, anche per chi fa parte delle forze dell’ordine. E poi il senso della notizia, di chi fa giornalismo davvero, andando a cercare le notizie là dove succedono le cose, credendo ancora in un mestiere tanto in fretta asservito o osteggiato. Giornalismo vero, quello di Giuliana Sgrena, non a caso presente all’Argentina, ancora una volta per rendere omaggio alla memoria di un poliziotto ucciso in una guerra non sua nel 2005. Ed è curioso, allora, certo significativo, che sia il teatro a farsi carico della memoria collettiva: ci sono certo i ricordi privati, e i dolori personali, ma è la scena a rendere ancora viva per la collettività la Storia recente. Teatro necessario, si diceva, proprio per non dimenticare, e magari indignarsi ancora, sapendone di più.
Poi voglio rendere un piccolo omaggio a una rassegna, ovvero Trend, nuove frontiere della scena britannica, giunta alla sua diciassettesima edizione. Un appuntamento ormai storico del teatro romano e non solo, che ogni anno anima il Teatro Belli, nel cuore di trastevere con una articolatissima proposta dedicata per l’appunto alla nuova drammaturgia in lingua inglese. Dobbiamo all’impegno, e al fiuto, del critico Rodolfo Di Giammarco questa iniziativa. Meritoria, e anche in questo caso necessaria, proprio perché sistematicamente offre al teatro italiano l’occasione di un confronto sistematico con quanto si agita nella scrittura contemporanea anglosassone. E il confronto internazionale, va da sé, è sempre interessante, utile, soprattutto come stimolo per tanti nostri autori, sempre più afflitti da narrazioni piccine, autoreferenziali, mammone, di una casalinghitudine bigottina dove il tema conturbante sembra essere (ancora!) la scoperta del proprio orientamento sessuale. Non tutto quel che è Made in Uk sia strafico, anzi: ma la rassegna Trend è utilissima per capire che aria tira, come scrivere, anche come investire su un teatro che sappia parlare al presente. Per quel che mi riguarda, ho visto solo una tra le tante proposte in cartellone, che nascono anche da “commissioni”, ovvero da incarichi che la direzione artistica affida a questo o a quel regista, forzando amichevolmente gli artisti a confrontarsi con testi magari lontani dal proprio percorso.
“A behanding in Spokane”, ovvero “Una mano mozzata a Spokane”, il lavoro cui ho assistito, è un divertimento grottesco, con note splatter, che dobbiamo al pluripremiato Martin McDonagh. La vicenda è un truculento e surreale incontro in una stanza d’albergo, tra un killer ossessionato dal voler ritrovare la propria mano sinistra, mozzata in gioventù, e una coppia di piccoli spacciatori che vuole vedergli una mano trovata chissà come. Poi, al telefono, una madre ossessiva, e infine un portiere di notte degno di Psycho. Commedia scritta per Broadway nel 2010, questa “mano mozzata” ha il gusto del primo Woody Allen (o perchè no, di certo Wes Anderson), ossia quel comico per situazione – che non esclude battute fulminanti – che tinge di crescente assurdità una realtà già al limite. Senza troppo “impegno” o ansie da denuncia sociale, il testo si muove – come accade spesso nella drammaturgia britannica – in quelle periferie urbane e umane dove il disagio è un certificato di esistenza in vita. Qua McDonagh la butta in farsa ma, ovviamente, il tracollo è dietro l’angolo.
Diretto con simpatia da Carlo Sciaccaluga, anche traduttore, cui preme sopratutto far brillare il testo, lo spettacolo è interpretato da un affiatato gruppo, in cui spicca Alice Arcuri (nei panni di una determinatissima e apparente sciocchina), con Andreapietro Anselmi, Maurizio Bousso e Denis Fontanari.
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