Teatro

Riccardo III malato di nostalgia

16 Febbraio 2020

Dopo aver visto, qualche giorno fa, al Teatro Palladium di Roma la versione dello shakespeariano Riccardo III con Enzo Vetrano, Stefano Randisi e Giovanni Moschella, mi è rimasta addosso una sensazione inattesa. Un sentimento strano, ispido, riottoso: una sorta di inquieta nostalgia. Ed è buffo, perché in Riccardo III tutto c’è, tranne la nostalgia: la violenza, l’arrivismo, la vendetta, la sete di potere, l’incubo, lo schifo addirittura, ma non la nostalgia. Invece, in questa compatta, vibrante riscrittura del bravo Francesco Niccolini entrano in gioco, almeno pare a me, tanti altri elementi. Innanzi tutto, lo spettacolo è “ispirato” all’originale shakespeariano e, pur mantenendo filologicamente e quasi totalmente il testo, ne cambia assetto, lo smonta e rimonta, lo sposta in un piano narrativo altro, che è distante ma avvincente.

Non è un caso, come dichiara l’autore, che l’adattamento sia ispirato oltre al Riccardo III anche ad un fatto di cronaca recente, ossia alla assurda vicenda criminale del francese Jean-Claude Romand: un perfetto impostore, un millantatore pluriomicida assurto agli onori della cronaca nera per aver sterminato la famiglia dopo una vita di bugie.

Ed è interessante, dunque, questo slittamento che impregna di sé l’allestimento.

R3, lo spettacolo, infatti, è ambientato in una sorta di fatiscente e gelido ospedale (le scene sono di Mela dell’Erba e le belle luci di Max Mugnai). Il protagonista è seduto su una sedia a rotelle che ben presto – nella fantasia o nel ricordo – diventerà l’ambito trono. L’avventura micidiale di Riccardo di Gloucester, la sua irresistibile ascesa alla corona di Inghilterra, fatta a colpi di spada e rimbombante ghigliottina, diventa allora “l’altra vita”, quella precedente o passata. Diventa il massacro di un folle, di un esagitato serial killer che rivive, sempre di nuovo, la sua famelica ansia di potere. In quel clima ospedaliero, da sedazioni e apparizioni, torna la vicenda di Riccardo ma si impone come il delirio di un disperato che non può far altro che ricordare.

Eccola là, la nostalgia canaglia: l’ossessione del ricordo, la vertigine disperante della memoria, il sogno di quello che sarebbe potuto essere. È l’evidenza del fallimento.

Anche nella prospettiva criminale, quel che vediamo – che condividiamo – è la storia di un uomo che non ha saputo mai essere se stesso, ma ha inseguito il sogno di una vita altra. Niccolini è bravo, nel puntellare bene il suo disegno drammaturgico. Lo fa con sapienza, perché tutto torna, anche nei momenti più aspri e più complessi da coniugare: tra passato e presente, sogno e realtà, ciò che appare importante, almeno ai miei occhi, è la amara consapevolezza di una grandezza sfuggita per sempre, di un “regno” – che è forse realizzazione di sé – mai veramente posseduto.

Ma questo R3, prodotto da Arca Azzurra, è anche puntualissima riduzione a tre personaggi, il 3 del titolo: tre interpreti (quanti erano inizialmente gli attori della tragedia classica) a contendersi i ruoli. Enzo Vetrano è Riccardo, mentre Stefano Randisi e Giovanni Moschella si alternano, in modo impeccabile, in tutti gli altri ruoli, compresi gli importanti personaggi femminili. Sono davvero bravissimi. Vetrano è suadente, subdolo, violento, acido, simpatico: scalcia, fa le bizze, ride, punge come uno scorpione. E da quando conquisterà il suo “trono”, sarà davvero in stato di grazia.

Randisi e Moschella sono colonne portanti di questo progetto scenico: mutano in un istante, eppure rimangono sapientemente loro stessi, esterni ed interni alla narrazione con grande consapevolezza. L’esito del lavoro è entusiasmante. Ma poi, in quell’istante sospeso tra il buio e l’applauso, si insinua quel senso amaro della nostalgia. La vita, lo sappiamo bene, ci scorre accanto: la viviamo, l’agguantiamo, per quel che possiamo. E solo a volte, raramente, arriviamo a uno straccio di consapevolezza. Il teatro è là a ricordarcelo.

Vorrei chiudere con una considerazione personale: nelle ultime stagioni, per quelle curiose dinamiche che attanagliano le stagioni teatrali, non ho visto gli spettacoli di Vetrano/Randisi. Li conosco, e li stimo, da tanti anni: da quando condividevano il palco con Leo De Berardinis. Adesso, dopo tempo, ritrovo Enzo e Stefano, affiancati dall’ottimo Moschella. E trovo due attori sapienti, portatori di una ricerca teatrale antica e modernissima. Capaci di attraversare codici, stili, linguaggi, testi. Trovo due attori che sanno il palcoscenico, che sanno il teatro, che sono il teatro. Leo di lassù guarda, come al solito imbronciato e sornione, ma sono sicuro anche molto, molto contento.

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