Teatro
Riccardo III malato di nostalgia
Dopo aver visto, qualche giorno fa, al Teatro Palladium di Roma la versione dello shakespeariano Riccardo III con Enzo Vetrano, Stefano Randisi e Giovanni Moschella, mi è rimasta addosso una sensazione inattesa. Un sentimento strano, ispido, riottoso: una sorta di inquieta nostalgia. Ed è buffo, perché in Riccardo III tutto c’è, tranne la nostalgia: la violenza, l’arrivismo, la vendetta, la sete di potere, l’incubo, lo schifo addirittura, ma non la nostalgia. Invece, in questa compatta, vibrante riscrittura del bravo Francesco Niccolini entrano in gioco, almeno pare a me, tanti altri elementi. Innanzi tutto, lo spettacolo è “ispirato” all’originale shakespeariano e, pur mantenendo filologicamente e quasi totalmente il testo, ne cambia assetto, lo smonta e rimonta, lo sposta in un piano narrativo altro, che è distante ma avvincente.
Non è un caso, come dichiara l’autore, che l’adattamento sia ispirato oltre al Riccardo III anche ad un fatto di cronaca recente, ossia alla assurda vicenda criminale del francese Jean-Claude Romand: un perfetto impostore, un millantatore pluriomicida assurto agli onori della cronaca nera per aver sterminato la famiglia dopo una vita di bugie.
Ed è interessante, dunque, questo slittamento che impregna di sé l’allestimento.
R3, lo spettacolo, infatti, è ambientato in una sorta di fatiscente e gelido ospedale (le scene sono di Mela dell’Erba e le belle luci di Max Mugnai). Il protagonista è seduto su una sedia a rotelle che ben presto – nella fantasia o nel ricordo – diventerà l’ambito trono. L’avventura micidiale di Riccardo di Gloucester, la sua irresistibile ascesa alla corona di Inghilterra, fatta a colpi di spada e rimbombante ghigliottina, diventa allora “l’altra vita”, quella precedente o passata. Diventa il massacro di un folle, di un esagitato serial killer che rivive, sempre di nuovo, la sua famelica ansia di potere. In quel clima ospedaliero, da sedazioni e apparizioni, torna la vicenda di Riccardo ma si impone come il delirio di un disperato che non può far altro che ricordare.
Eccola là, la nostalgia canaglia: l’ossessione del ricordo, la vertigine disperante della memoria, il sogno di quello che sarebbe potuto essere. È l’evidenza del fallimento.
Anche nella prospettiva criminale, quel che vediamo – che condividiamo – è la storia di un uomo che non ha saputo mai essere se stesso, ma ha inseguito il sogno di una vita altra. Niccolini è bravo, nel puntellare bene il suo disegno drammaturgico. Lo fa con sapienza, perché tutto torna, anche nei momenti più aspri e più complessi da coniugare: tra passato e presente, sogno e realtà, ciò che appare importante, almeno ai miei occhi, è la amara consapevolezza di una grandezza sfuggita per sempre, di un “regno” – che è forse realizzazione di sé – mai veramente posseduto.
Ma questo R3, prodotto da Arca Azzurra, è anche puntualissima riduzione a tre personaggi, il 3 del titolo: tre interpreti (quanti erano inizialmente gli attori della tragedia classica) a contendersi i ruoli. Enzo Vetrano è Riccardo, mentre Stefano Randisi e Giovanni Moschella si alternano, in modo impeccabile, in tutti gli altri ruoli, compresi gli importanti personaggi femminili. Sono davvero bravissimi. Vetrano è suadente, subdolo, violento, acido, simpatico: scalcia, fa le bizze, ride, punge come uno scorpione. E da quando conquisterà il suo “trono”, sarà davvero in stato di grazia.
Randisi e Moschella sono colonne portanti di questo progetto scenico: mutano in un istante, eppure rimangono sapientemente loro stessi, esterni ed interni alla narrazione con grande consapevolezza. L’esito del lavoro è entusiasmante. Ma poi, in quell’istante sospeso tra il buio e l’applauso, si insinua quel senso amaro della nostalgia. La vita, lo sappiamo bene, ci scorre accanto: la viviamo, l’agguantiamo, per quel che possiamo. E solo a volte, raramente, arriviamo a uno straccio di consapevolezza. Il teatro è là a ricordarcelo.
Vorrei chiudere con una considerazione personale: nelle ultime stagioni, per quelle curiose dinamiche che attanagliano le stagioni teatrali, non ho visto gli spettacoli di Vetrano/Randisi. Li conosco, e li stimo, da tanti anni: da quando condividevano il palco con Leo De Berardinis. Adesso, dopo tempo, ritrovo Enzo e Stefano, affiancati dall’ottimo Moschella. E trovo due attori sapienti, portatori di una ricerca teatrale antica e modernissima. Capaci di attraversare codici, stili, linguaggi, testi. Trovo due attori che sanno il palcoscenico, che sanno il teatro, che sono il teatro. Leo di lassù guarda, come al solito imbronciato e sornione, ma sono sicuro anche molto, molto contento.
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