Teatro
Resoconti e riflessioni dai Festival: capitolo primo
E allora ci provo a dar conto dei tanti spettacoli visti in questi giorni in giro per i primi festival della stagione. Sarà un racconto in tre movimenti, con un epilogo, che provo a lanciare da oggi a sabato. Impossibile per me, eccessivo per il lettore e forse anche prematuro rispetto a certi lavori, recensire ogni singolo spettacolo: ma vale forse la pena lanciare qualche considerazione, individuare un qualche filo rosso, una linea comune che emerge in allestimenti anche i più diversi.
Ci aveva pensato un bel numero della rivista Culture Teatrali, edito da La Casa Usher e ben curato da Silvia Mei, a fare il punto sull’ultima scena italiana. E in particolare, tra gli interessanti interventi, si può citare almeno l’attento saggio di Cristina Valenti che, ripercorrendo la lunga esperienza fatta con il premio Scenario, enucleava alcuni tratti salienti dell’avanguardia di questo inizio secolo. Nell’ondata post-postdrammatica (un gioco di parole che ci serve a collocare quanto accade oggi alla luce del celebre saggio sul teatro postdrammatico di Lehmann), notiamo infatti delle curiose ricorrenze, degli elementi che si impongono, sempre di nuovo, come “tradizione del nuovo”.
Lo storico del teatro Marco De Marinis, parlando di nuova regia, ci aveva già avvisato: si è ormai consolidata una «adozione della performance o performativizzazione del teatro. Ossia adozione di procedimenti e dispositivi che tendono a decostruire o destrutturare o almeno debilitare la forma messa in scena, attaccandone i fondamenti. Per portarla altrove». Con la scrittura performativa, insomma, che si insinua tra quella drammatugica e quella scenica, mettendo in crisi le convenzioni basilari del teatro. Già: ma per far cosa?
In questi gruppi giovani e giovanissimi, la decostruzione è evidente, forse necessaria, e tanti, quasi tutti gli spettacoli, hanno le stimmate della performatività, ampio ombrello che giustifica e legittima tante scelte.
Sono generalizzazioni le mie, lo so: e sono consapevole delle tante altre strade che il teatro percorre, ma qualche elemento è gustoso illuminarlo.
Per quel che ho visto, allora, si nota che gli allestimenti sono affidati a pochi attori in scena, con qualche gruppo più numeroso – per scelta ma anche per ragioni economiche – che lavorano intrecciando tragedia, commedia e notizie d’attualità (anche prese aneddoticamente da internet o dai social), mescolano al teatro documentario stralci di classici: Cechov su tutti, i soliti 4 o 5 testi di Shakespeare, qualche tragedia, l’immancabile Pasolini. Puntano molto, moltissimo, sulla Self-Fiction, ossia sul racconto teatralizzato o “confessato” di sé. Le scenografie, ovviamente, sono ridotte all’osso; si salvano magari i costumi (giacche strette per gli uomini, abiti comodi per le signore, scarpe bauschiane). Nel coté performativo rientrano l’ironia e l’autoironia come grimaldelli narrativi per il costante dialogo con il pubblico – a volte senza necessariamente attendere risposta, altre con reale coinvolgimento dello spettatore emancipato. Si usa il microfono come scandaglio dell’anima; si smonta e si mostra continuamente il meccanismo teatrale, senza illusioni o allusioni. I dialoghi sono spesso ridotti al minimo a favore di lunghi monologhi e quando ci sono, appaiono quasi “citati”, ossia meta-recitati.
Sovente riscontriamo un’attenzione all’impossibilità economico-esistenziale di fare teatro, ossia di esprimersi attraverso il teatro, che diventa consapevolezza spiattellata in faccia al pubblico dell’andare in perdita, dell’essere il teatro un non-lavoro. Magari ci si accontenta della visibilità o di dare risposta, attraverso lo spettacolo, a urgenze politiche, sociale, comunicative. La drammaturgia, inoltre, procede spesso per affastellamento, per accumulo, per citazioni, per frammenti: è una la forma del “montaggio per numeri”, quasi da varietà, che sancisce, laddove ce ne fosse ancora bisogno, l’impossibilità del grande racconto, della narrazione distesa. E anche quando le microstorie assurgono a grande epopea, sono spesso spaccati generazionali, concreti, realistici, con evidenti rimandi geografici anche dialettali.
Ovviamente, ci sono altri elementi, oltre ai citati, che connotato la scena di questi anni. E magari ci torneremo su. Certo è, però, che non si tratta di dire “bene” o “male”, di valutare se simili connotazioni siano positive o meno, anche perché – si diceva – se questo è il quadro generale, non mancano le brave eccezioni.
Ad esempio, al bel Festival Trasparenze di Modena, ottimamente organizzato e amorevolmente curato da Teatro dei Venti, il forte e condiviso afflato sociale e politico spinge altrove. Ad esempio, gli interventi nella Casa Circondariale di un potentissimo Vincenzo Pirrotta, con Malaluna in forma di concerto capace di trascinare e coinvolgere il pubblico di detenuti e detenute (anche in un’improvvisazione con un carcerato rapper tunisino chiamato Tsunami).
Altrettanto significativo il lavoro fatto in workshop da Kronoteatro attorno al Tieste di Seneca con il gruppo di detenuti-attori normalmente attivi grazie a Teatro dei Venti: un esito che va oltre il laboratorio ed è incisivo e elegante preludio a un lavoro in divenire. Ancora da Modena vale la pena segnalare l’interessantissimo percorso che il regista Dante Antonelli sta facendo con il gruppo Collettivo Schlab attorno all’opera di un drammaturgo non facile come Werner Schwab. Al festival ha presentato Duet-Quanti siamo davvero quando siamo noi due? Un gioco al massacro di coppia, che impasta ferocia e animalità, intellettualismi e raffinati eloqui, verità aspra e ossessiva crudezza. Bravi, in scena, un sulfureo Enrico Roccaforte e Valentina Beotti, sempre più interprete intensissima (ma quanto ricorda Giulia Lazzarini giovane?). E se pure Duet sbanda un po’ nella parte centrale, risuona esplosivo come un incontro di thaiboxe, senza esclusione di colpi.
Commovente, almeno per me, il semplice e violento rituale imbastito dal gruppo messicano Vaca35 di Damian Cervantes a partire dalle Serve di Genet: lo avevo già visto al Festival Mess di Sarajevo, e nel rivederlo ritrovo lo stesso incanto, fatto di poesia e povertà, di fisicità compresse ed esplosive, di miseria che si fa rabbia, di sogni e favole struggenti che non si realizzeranno mai.
E mentre la sinuosa e arguta Giselda Ranieri fa dialogare il suo corpo di danzatrice improvvisando e reagendo agli incessanti ritmi di una batteria di Igino Caselgrandi, sotto la pensilina della stazione ferroviaria, portando la creazione coreografia sul terreno della jam session, in teatro Daniele Timpano Elvira Frosini, come schegge impazzite, ripercorrono la storia ingloriosa dell’Italia colonizzatrice.
Acqua di Colonia, il loro lavoro, è una dissacrante requisitoria sul passato patrio, che fa risuonare in tutta la loro crudeltà un mare di luoghi comuni e di false verità di cui è infarcita la memoria collettiva. Italiani brava gente, dicono Frosini/Timpano, è un mito assolutamente da sfatare: il colonialismo italiano in Somalia, Libia, Eritrea e Etiopia è stato aspro, violento, fascista. Com’è nello stile del surreale duo di attori-autori, lo spettacolo ha un tono argutamente provocatorio: uno specchio che, deformando, riflette quanto mai la verità.
Mettendo in scena l’allestimento possibile di uno spettacolo futuro (che è la seconda parte di Acqua di Colonia, che non ho visto), Frosini/Timpano sognano, vaneggiano, fanno invettive, requisitorie, strambi dialoghi entrando e uscendo da mille personaggi e rimanendo sempre loro stessi. Il tutto mentre un giovane seduto in scena, Sissoko Kossa, guarda attonito e silenzioso quei due – italiani, europei, occidentali – che parlano e gesticolano e raccontano il suo mondo: il gap tra i due estremi, metaforico e reale, simbolico e teatrale spiega tanto della attuale questione immigrazione.
(Nella foto di copertina: Duet di Collettivo Schlab, immagine di Claudia Pajewski)
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