Teatro
Ravenna, dentro i sogni di un Cavaliere Errante
Cavalieri erranti e sognatori. Ma la vita è davvero un sogno per tutti? Nel dramma teatrale scritto da Calderón de La Barca, “La vida es sueño” del 1635 il principe Sigismondo ricorda come anche il ricco sogni “tra le sue ricchezze che gli danno tanti crucci; sogna il povero che patisce miseria e povertà; sogna chi comincia a prosperare, sogna chi brama e s’affanna, sogna chi fa oltraggio e ingiuria e nel mondo tutti in conclusione sognano quel che sono anche se nessuno lo comprende”. Sognano tutti dunque. Dal giorno della nascita è come se avessimo una seconda pelle, sottile e sovrapposta all’altra. Chiudendo gli occhi permette di muoversi dentro personali stanze dove fluttuano i ricordi e si anticipa il futuro. Forse davvero – come sostiene Prospero in quella storia di isole e magia di Shakespeare che è la ”Tempesta”- “siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita”(atto quarto, scena 1) . L’intreccio stretto tra sogno e vita è l’elemento fondante dell’avventura letteraria dell’hidalgo Don Quijote de la Mancha, la trama sotterranea, pagina dopo pagina, di quel meraviglioso romanzo – che anticipa la modernità- di Miguel de Cervantes, nuovo campo di indagine e sfida teatrale scelto dal Teatro delle Albe che, sulle tracce della straordinaria avventura -umana e artistica- della “Commedia” dantesca (2019-2022), ha voluto affrontare questa nuova impresa per Ravenna Festival, firmata in tandem da Ermanna Montanari e Marco Martinelli: sarà sviluppata in tre ante con i cittadini di Ravenna da qui al 2025 (e, chissà, se non troverà lungo strada anche una occasione per incontrare Dante?…).
Non è quindi così incredibile che questo atto battezzato “Don Chisciotte ad ardere”, che capovolge l’andamento del racconto dell’autore spagnolo, prenda le mosse nell’atmosfera liquida ed evanescente dei sogni, ricreata ad hoc dentro l’austero palazzo Malagola, dove da pochi anni è nata una scuola internazionale della voce diretta da Ermanna Montanari con Enrico Pitozzi. Ed è proprio l’attrice delle Albe, vestita con eleganti pizzi in nero, ad affacciarsi dal balcone sulla strada e apostrofare gli erranti invitandoli ad entrare nel castello dove ad aprire il portone sarà Marco Martinelli in tuxedo grigio e un ramoscello verde che gli spunta da dietro le spalle.
Dice Ermanna: “Legno di foglie e sangue/ Croce del Mondo /Asse del Mondo/ Tronco glorioso/ Pien de vergogna /Che nonostante la pioggia e il vè-/ Nonostante il terremò- /Nonostante l’alluviòn/ Nonostante le mille e cinquecento disgrà-/ Nonostante ‘sto mundo de mierda/ Asasìno/ Malizioso/ Fèls, come l’erba cativa…/ Nonostante tutte ‘ste rogne /Quel legnetto /Ancora sta lì / Firmus
Che me fa tanta compasiòn/ In te universa Mysteria/
Entrà!/ Entrate dal di legno portòn! /Fasì prest!/ Entrà nel palatium encantà! …”
Hermanita e Marcus, coppia di maghi non proprio perfetti, che molto sanno ma pure qualcosa ignorano. “Due poveri maghi sperduti. Siamo le guide che dovrebbero guidarvi, o erranti: ma noi non conosciamo il cammino, come facciamo a guidarvi? Arranchiamo. Nelle tenebre. Le nostre bacchette sono spuntate, i nostri trucchi sorpassati …”
Marcus accoglie i nuovi arrivati in un ampio stanzone dove c’è chi è indaffarato a cucire con le macchine, altri a scrivere pagine che verranno distribuite prima di partire. “Questo -dice-è il luogo dove si scrivono, si disegnano e si cantano i sogni”.
Tra i banchi, in quel momento, si aggira una giovane donna, Serena Abrami, cantando antiche e melodiose rime. Nella parete di fondo il pittore Stefano Ricci è intento invece a disegnare il suo sogno. La sensazione è quella di intraprendere un percorso iniziatico in cui gli erranti entrano in sintonia con il mondo dei sogni.
All’epoca di Cervantes (1547-1616) si pensava che il sogno fermasse la volontà e, durante il sonno, l’anima si separasse dal corpo. Da un altro angolo di visione molto estraneo all’Occidente latino – ma che ebbe grande ripercussione nella Spagna del tempo di Cervantes– abbiamo testimonianza di una simile convinzione. Si rintraccia nelle opere di Garcilaso de la Vega, detto l’Inca (1539-1616), storico e umanista peruviano che, riportando credenze indios affermava come “l’anima lasciasse il corpo mentre la persona dormiva. Quello che l’uomo vedeva poi nel mondo era ciò che aveva sognato” (“Comentarios reales, que tratan del origen de los Inca” ,1609, II, VII). Calderòn de la Barca (1600-1681), Cervantes, Shakespeare e De La Vega, quattro uomini del proprio tempo (gli ultimi tre singolarmente scomparsi lo stesso anno, 1616) fermamente coscienti del ruolo straordinario che i sogni giocavano nelle esistenze quotidiane. Lo era ieri, lo è forse, anche oggi.
In gruppi di sette gli erranti sono introdotti e guidati in un labirinto fatto di scale, da salire e da scendere, luoghi segreti, porte da aprire. Immersione in un mondo barocco e psichedelico. All’inizio si cammina come a mezz’aria, sfiorando le punte di spighe lussureggianti in una penombra rosa cremisi. Luoghi abbandonati pochi attimi prima: un tavolo, computer, penne, taccuini. In una sala da pranzo una famiglia si ciba del brodo con un coltello mentre tre galline passeggiano indifferenti sul tavolo, tra bicchieri e tovaglioli. Una finta parete a specchio per un attimo rivela due bambini che costruiscono un castello di sabbia. All’improvviso ecco la ferita della guerra. Una infermeria da campo accoglie soldati feriti, sguardi persi nel vuoto, mentre un chirurgo in una sala adiacente prova a mettere insieme pezzi di diverse protesi. Uno studio illuminato sinistramente restituisce l’angolo disordinato di un’aula di medicina con uno scheletro, dei barattoli e una lavagna scarabocchiata. In una soffitta una sirena osserva disegni sul muro mentre in un bugigattolo una ragazza seminuda si taglia i lunghi capelli neri. Scene da un bordello con uomo e donna di terza età nudi e visti di spalle: forse hanno appena fatto l’amore. Infine il candore accecante di un banco di macelleria con la carne che gocciola sangue precede l’uscita dal percorso per sciamare nel giardino. Davanti alla gradinata la facciata interna del palazzo è ora una locanda come indica una scritta in bianco. Un po’ più in là un’altra dice “Trash Room”.
Accanto, una scala dipinta di rosso. A destra un palco con la band Leda che accompagna con musiche originali. Precisa e sempre a tempo (teatrale) che non è mica così scontato. Serissimi strumentisti. La band è: Serena Abrami, voce e sinth, Enrico Vitali, chitarre, Fabrizio e Paolo Baioni, batteria e impulsi e Giorgio Baioni al basso. Sui lati opposti del giardino prendono posto i cittadini vestiti di bianco. Ogni sera sono diversi. E impeccabili (in duecentocinquanta hanno risposto alla chiamata delle Albe). Non sono comparse ma cittadini che hanno preso un impegno civico con il teatro. Stazionano ed entrano in conflitto, sottolineano e accompagnano i diversi momenti del dramma con convinzione di attori che hanno studiato la parte: interagendo con quelli principali, come le cantiche dantesche hanno ben insegnato. Non è insomma un teatro partecipato, dove gli spettatori fanno le belle statuine, ma un teatro autentico e condiviso. Arte e teatro come atto di cittadinanza. Questo, tra platani che inframezzano la scena è l’agone dove prendono vita le gesta e le azioni di Don Chisciotte ben interpretato da un misurato e ispirato Roberto Magnani, lo scudiero Sancho Pancia, un arguto e puntuale Alessandro Argnani e la bella Dulcinea, Laura Redaelli. Completano il cast, Mario Saccomandi e Fagio nei panni evocativi di un Orson Welles, il cui fantasma ha ballato un po’ tra le pieghe del lavoro (Welles girò un “Don Quijote” in 16 millimetri ma, per diversi motivi, non fu mai terminato. Una versione montata da Jesus Franco fu presentata alla Mostra di Venezia, fuori concorso, nel 1992).
Ed è un “Chisciotte” diviso in due che in controluce al sognatore mostra uno spirito rebelde e antagonista, eppure una forte voglia di ricomporre una comunità a brandelli giunta a un bivio pericoloso. Il disegno utopico prende forma per strappi e visioni. D’altro canto ciò che conquista di quell’anima così eccentrica e sognante, innamorata dell’arte e della poesia è quello stare sempre da una parte della barricata.
I sogni rimbalzano nella mente e si trasformano in realtà. Quijote è sempre pronto alla sfida, laddove c’è ingiustizia o torti da riparare. Ostinato e coraggioso, quanto incosciente e senza una strategia. Blocca ed esige che un gruppo di galeotti in catene, condotti verso il carcere, venga liberato, ma poi accadrà che proprio questi ingrati lo meneranno. Sancio accompagna il cavaliere cercando di fermarlo prima che sia troppo tardi. Viene sempre nominato per secondo “ma adesso -dice- parlo io, i tempi sono cambiati, adesso anche un Sancio Panza qualunque può aprirsi il suo instagram!”
Così racconta che “un bel giorno ‘sto nobile spiantato, uno che conoscevo bene…uno triste, sempre con la testa tra le nuvole, uno che si seccava il cervello le notti intere a leggere romanzi e romanzetti…”. Don Chisciotte cercava di convincerlo in tutti i modi e gli diceva “…Sancio por favor, se mi escudero, Sancio por favor, ya veras que aventuras, alla fine ho ceduto e l’ho seguito, cancaro che l’ho seguito, ho lasciato moglie e figli e l’ho seguito, e da quel giorno non son che bastonate e calci che buschiamo dappertutto… questo poi, scambia i mulini a vento per delle multinazionali, li attacca con una furia mai vista, e per forza si rompe l’osso del collo, ci va a sbattere contro, insomma è pazzo e non lo dico solo io…”
“Questo nobile spiantato _ racconta invece Dulcinea _ si era innamorato di me, e io manco lo sapevo. Dulcinea del Toboso, così mi ha ribattezzata… a sentir lui un nome “musicale e prezioso”… pensate un po’ cosa si è andato a inventare!”
Marcus scioglie l’arcano: “Lei, Dulcinea, in verità si chiama Laura Ross de la Briansa, lui, Don Chisciotte, risponde al nome di Roberto del Castillo e quell’analfabeta là, Sancio, è Aleandro Argnàn de Puerto Foras…”.
Tutto insomma secondo la trama del più amato romanzo del mondo. L’allestimento en plein air è punteggiato da esplosioni di epica teatralità. Su tutte la poderosa e magnetica glossolaia diretta da Montanari, tutto cuore ed energia, e un coro strepitoso che riprende e rilancia impossibili scioglilingua con risultati adrenalinici potenti. Altra scena di massa con i cittadini ravennati è l’esplosione al ballo: un popolo in bianco che balla… Prima di questa Don Chisciotte aveva ricordato con scarso successo la felice età dell’oro, quando non esisteva la proprietà privata e i beni erano in comune.. e nessuno era costretto a lavorare”. Niente, raccoglie solo indifferenza e qualcuno perfino urla. “Smettila cretino! Fatti un profilo social se vuoi metterti in mostra!”
Ci vuol poco a virare e passare dallo sfottò alla rabbia… Da lì a bruciare i libri il passo può essere maledettamente breve. A farlo potrebbero persino essere quelli che un tempo erano gli amici. Il curato e il barbiere che “ragionando ragionando sono arrivati alla conclusione che il cervello ti è andato in pappa, nobile cavaliere, per troppe letture! E sbagliate! E ragionando ragionando… Ora mettono sotto accusa la tua biblioteca, più di cento volumi come una pancia sfonda gonfia di cibo andato a male li studiano quei cento faldoni decisi a punire i colpevoli i più pericolosi. E ragionando ragionando…”.
Ecco volare via dalle finestre del palazzo tutti i libri del nostro scibile umano. Da “Candido” di Voltaire ai Vangeli... Ma anche Dante. E Cervantes. Thumberg e Brecht, Artaud e Primo Levi, Maria Zambrano… La folla urla: “Al rogo! Al rogo!” mentre baluginano sinistramente le fiaccole che possono avvolgere i libri in pochi secondi…
Chiede Marcus: dove sono finiti i sogni… o erranti? quelli che avevamo da ragazzi? “I sogni a occhi aperti, in piena luce i sogni di cambiarlo questo mondo di farlo più giusto e più bello, tutti sognatori come Don Chisciotte”… ecco invece i giochi oscuri della guerra, quella che traffica con i tank e gioca sulla pelle degli uomini e delle donne. Le Albe sono una delle poche compagnie, se non forse l’unica, a stare politicamente sempre sul pezzo. Sintonizzati sui giorni che ci attraversano. A prestare attenzione alla nostra vita e guardare lontano, dando la sveglia prima che inizi “a nuttata”. E sia troppo tardi per cambiare.
Avverte ispirata Hermanita: “Cosa ci fà-/ Cosa ci fate lì imbambolà? / Non le vedete le fià-?/ Le fiamme che si alzano in ciè-/ Che incendiano il mondo! /
Si comincia sempre così /Si comincia con quattro libretti /Zitti zitti /Un fiammiferino /Uno zolfanello”…. e infine “Non fatevi sedurre! /
Scapì/ Scapì intant ca putì /Scapì in tal ter! /Si comincia col bruciare la carta /Si finisce per bruciare la carne! /Si comincia con un rogo di libri/ Si finisce con un rogo di donne, uomini, bambini!/ Scapì! Scapì! …”
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