Teatro

Quella famiglia è una prigione

20 Giugno 2018

Sgomberiamo subito il campo da ogni dubbio: è vero, in scena c’era la Palma d’Oro al Festival di Cannes come migliore attore, ossia Marcello Fonte, ma lo spettacolo non si è piegato al consenso facile che pure avrebbe potuto cercare, non ha abdicato alla coralità e alla condivisione per far spazio a Fonte. Il quale, anzi, si è mostrato già maturo interprete proprio per aver tenuto un atteggiamento rispettoso (del gruppo, di sé, del pubblico), rimanendo anche appartato, contribuendo indubbiamente al successo ma senza strafare. Stiamo parlando di Famiglia, il nuovo spettacolo della compagnia Fort Apache, diretto da Valentina Esposito (l’abbiamo intervistata qui), di cui Fonte è uno dei protagonisti.

Fort Apache è un gruppo decisamente particolare: è formato da ex detenuti o detenuti in forma alternativa del Carcere di Rebibbia, che – dopo aver fatto teatro in carcere –  hanno deciso di continuare in questa attività, con risultati entusiasmanti. Attori di livello, ormai, per quel teatro sociale che sa incontrare, e sempre più sta incontrando, l’arte. Dunque Famiglia è andato in scena al teatro India, nell’ambito della rassegna Roma Città Mondo, voluta dal teatro nazionale capitolino per affrontare, a vario titolo, quello che viene spacciato oggi come un problema, ossia il confronto tra culture diverse anche nell’ambito di contesti di disagio. Il teatro sociale, in questa prospettiva, è terreno fertile di sperimentazione, ricerca, integrazione, confronto, ma anche e soprattutto di elaborazione artistica, dunque di creazione scenica, di attivazione di codici e linguaggi che si stanno rinnovando proprio grazie alla frequentazione di ambiti fortemente connotati, come quello del carcere.

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E il lavoro della compagnia Fort Apache conferma appieno quanto detto: attenzione a temi e aspetti che affondano a pieno titolo nelle contraddizioni sociali e politiche d’oggi, in particolare relative alla faticosa, spesso impossibile, reintegrazione in società di ex detenuti. Eppure il tutto è elaborato in un linguaggio scenico non didascalico né amatoriale. Si cerca, anzi, l’intensità della rappresentazione giocando proprio sulla qualità della presenza attorale, sulla freschezza drammaturgica, sulla visionarietà registica. Famiglia è il racconto, in forma di lungo flashback, di una famiglia come tante, forse più “segnata” di altre da stilemi violenti, tragici, eppure ricca di amore, di affetto, addirittura di bontà.

Una saga di tre generazioni di “immigrati” calabresi che arrivano a Roma, con un proprio codice patriarcale, con un mare di non detto, di silenzi rancorosi, di successi e fallimenti che travalicano i decenni. Nonno, padre, figlio, nipote: tutti là a fronteggiarsi, vivi e morti presenti assieme sulla scena della vita, a festeggiare un matrimonio che è scontro finale o goffo tentativo di riconciliazione, rivalsa o ricordo, slanci trattenuti e parole smozzicate. Poi ci sono le donne, lì accanto, accoglienti, comprensive oppure dure, rese aspre da quegli stessi uomini pronti ad alzare le mani o la voce. Loro, le donne, sono forse la speranza, il candore di un mondo altro, principio femminile di diritto e convivenza, prospettiva sensibilmente diversa, ma sembrano poi incapaci di sfuggire alle dinamiche claustrofobiche e incancrenite della “sacra famiglia”. La narrazione procede per quadri, in un crescendo che va avanti e indietro nel tempo, illuminando dettagli, posizioni, fino allo svelamento finale, alla ragione profonda (una delle ragioni profonde) dell’odio, dell’astio, della distanza. È la tragedia, insomma, l’eterno motore della famiglia.

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Tragedia immutabile e antica, Atridi o Labdacidi sono prossimi, appena dietro la tavola imbandita di un matrimonio di periferie. Le lingue sono aspre, segnate da una smaccata cadenza romanesca, ma il racconto è sempre di nuovo quello della lotta tra padri padroni e figli ribelli.

Lo spettacolo, al debutto ancora da sistemare, ha però momenti di grande commozione: nel dialogo tra chi non c’è più e chi è restato in questo mondo, si distilla quello struggente mondo impastato di nostalgia, di incomprensioni, di frustrazioni. Sono da rodare toni e livelli (e impianto di amplificazione); da sfrondare alcune scene eccessivamente insistite o sciogliere qualche snodo un po’ meccanico; si può magari far a meno di un inserto di danza “astratta” che stona un po’ nel contesto, mentre funziona bene, anche drammaturgicamente, una successiva taranta di grande intensità.

Poi ci sono questi interpreti, davvero notevoli, che danno corpo e voce, che connotano di vissuto la drammaturgia, investendo di contenuti, suppongo anche biografici, i personaggi.

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Di fatto, il legame tra realtà e finzioni, nella Compagnia Fort Apache diventa labile confine da esplorare e inventare. Come tornare in famiglia dopo la detenzione? Come recuperare, viene da chiedersi, il tempo “perso”, negato, come ritrovare e dire le parole non dette, e come far sì che le colpe, ancorché espiate, dei padri non ricadano ancora sui figli? E infine come ritrovarsi in un mondo che, mentre il tempo passava in galera, è andato avanti, altrove, rispetto quel che era? Tornare in famiglia vuol dire tornare al mondo, fare teatro significa tornare in società. Recupero, riabilitazione, senza dubbio: ma anche dignità, profondità, ritrovata identità. Sembra quasi possibile “ribaltare la rassegnazione”, agire, fare qualcosa, ritrovare l’empatia, ascoltare l’Altro, anche per dare segnali diversi a questo Paese che vuole schedare i Rom. Magari semplicemente stando assieme e giocare al teatro.

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Allora lo spettacolo Famiglia muta la tragedia in grande metafora, corale trasposizione di una questione cocente, viva, con cui fare i conti. E sono bravi in scena, nel ruolo del padre, l’intenso Giancarlo Porcacchia, ormai attore davvero notevole; il rabbioso Alessandro Bernardini, il calibrato Christian Cavoso (sono i due figli) e con loro Chiara Cavalieri, Matteo Cateni, Viola Centi, Alessandro Forcinelli, Gabriella Indolfi, Piero Piccinin, Fabio Rizzuto, Edoardo Timmi, Cristina Vagnoli: da ciascuno contributi sinceri, momenti qualitativamente di valore disseminati nello spettacolo. Ci sono istanti di grande tenerezza, di commovente semplicità, di disincantata poesia: se la regista Valentina Esposito con la sua Fort Apache vorrà scandagliare maggiormente simili aspetti, come si può ben intuire dal lavoro, andare a fondo di un’essenzialità già intuita dallo spettacolo, allora Famiglia potrebbe svelarsi per quel piccolo gioiello d’umanità che ora è in nuce o a tratti, davvero un teatro “sociale” sempre più d’arte. E il lavoro ha tutte le premesse per crescere benissimo.

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Resta da dire di Marcello Fonte, nei panni del nonno, il capostipite: è un ribollire di tensioni, di ironie, di violenze, di fragilità. Con quel viso sospeso tra Al Pacino e Totò, con quel sorriso disarmante, Marcello Fonte ha dimostrato di non essere quella “sorpresa”, quel “genio e sregolatezza” che molti hanno voluto intuire nella sua interpretazione per Dogman di Matteo Garrone. Qui c’è un attore attento, sensibile, che si mette alla prova, sa misurarsi col gruppo, capace di tenere energia e presenza anche semplicemente stando fermo immobile sullo sfondo, aderendo al disegno registico. Ma quella sua inquieta e allegra follia c’è, esiste, si avverte perché arriva al pubblico con una forza inusitata.

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