Teatro
Quella droga chiamata Workshop
Ieri sera, chiacchierando davanti a un bicchiere di vino con un buon amico (e ottimo attore) l’ho sentito dire, più o meno, queste parole: «Ma come si fa a lavorare nel teatro oggi? Non sono massone, non sono pd, non sono di Cl o dell’Opus Dei, non sono nemmeno ebreo. E poi non sono gay, non sono figlio di papà, non ho zii o cognati, non c’è in famiglia né un vescovo né un senatore. Forse, se mi faccio arrestare, posso fare teatro in carcere! Intanto, adesso, vado a fare quel workshop di un mese…».
Infervorato e divertito dai toni scherzosi e dei paradossi, al terzo bicchiere ho capito che il problema è serio e riguarda non tanto il coté relazionale o parentale tutto italiano, quanto piuttosto il nodo gordiano dell’eccesso di workshop.
Oggi il “laboratorio” è diventato una tossicodipendenza, una schiavitù, una coazione a ripetere. Il guaio è che, nel teatro italiano, le “masterclass” sono prassi quotidiana. Quando ho iniziato a fare critica, una ventina di anni fa, erano l’eccezione, l’evento unico e irripetibile, l’occasione davvero da non perdere.
Oggi tutti fanno workshop (compreso chi vi scrive). E tutti frequentano workshop.
La questione sta diventando ansiogena: perché, di fatto, si avverte, sempre più diffusa, un’obbligatorietà della “formazione continua” quasi che a mancarne uno, di laboratorio, si va in crisi d’astinenza.
C’è chi si sbatte da una parte all’altra della penisola, a caccia del workshop perfetto e chi li ha fatti tutti: alzando la dose, la gratificazione è maggiore?
Abbiamo scritto più volte, e lo ripeto, che questo passare dalla “straordinarietà” alla “serialità” della pratica laboratoriale provoca alterazioni della realtà. Il guaio è che per attori e performer il workshop prende il posto del lavoro, l’aggiornamento professionale permanente è sostitutivo (o alternativo) alla professione, mentre dovrebbe essere collaterale e marginale, seppure necessario. Tanto più grave, poi, quando questa pratica laboratoristica viene “integrata” nel lavoro in una sorta di anomalo stage: in buona sostanza, il workshop sostituisce le prove, con il risultato di avere prove gratis (con risparmio per chi produce e perdita per chi fa).
Si sa, sono soprattutto i “giovani” a cadere nella dipendenza: quella fascia che va dai “neodiplomati” ai quarantenni in crisi. La fascia più debole.
Allora voglio fare un appello.
Attori, attrici, performer italiani: uscite dal tunnel! Smettete di sottostare a laboratori capestro! Smettete e fate smettere i vostri amici! Basta!
Non sentitevi in colpa.
Molti di voi (non tutti) sono bravi, preparati, iper-professionali. Avete fatto Accademie, scuole, perfezionamenti. Siete formati quanto basta per fare Medea o Riccardo III, per stare in scena con Jan Fabre o Nekrosius, per dare il vostro segno sulla scena italiana. Dunque, cominciate a dire “no”, riportate il laboratorio a un momento straordinario e saltuario del vostro percorso professionale. Non cedete ai ricatti: “così magari mi nota”, “così mi faccio conoscere”, eccetera eccetera…
E anche voi, Maestri, che avvertite così forte l’impeto pedagogico: se proprio volete insegnare, passare un testimone, sperimentare nuovi modelli di teatro, unitevi alle tante scuole che già esistono. Portate le vostre competenze e qualità nelle scuole italiane di teatro. Ora, poi, che anche i Teatri Nazionali (nella foto di copertina i bravi allievi della ottima Scuola del Piccolo di Milano) hanno l’obbligo pedagogico-formativo, serviranno sicuramente maestri pedagoghi di qualità. Ebbene: date il vostro contributo a razionalizzare l’offerta formativa quantomeno eclettica del nostro belpaese.
E infine voi, Scuole e Accademie: aprite il corpo docente a questi professionisti della scena, sicuramente nell’incontro e nello scambio con i Maestri già incardinati nasceranno cortocircuiti virtuosi e positivi.
Ho raccontato più o meno questo, al mio amico. Poi gli ho augurato di fare un buon laboratorio, così che, forse, il regista lo sceglierà per chissà quale produzione…
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