Teatro
Quella assurda violenza in classe
Sembra non risolversi lo scandalo pedofilia nella chiesa cattolica. Tanta buona volontà, senza dubbio, quanto meno a parlarne. Ma risultati, al momento, ben pochi rispetto all’ampiezza del fenomeno. Piaga mostruosa, ha detto papa Francesco. Certo lo è. Ma suona un po’ strano definire “piaga” – che so, come le cavallette, come il terremoto – un fenomeno strutturalmente umano, personale, doloso, dunque criminale: sarebbe come dire che la Mafia è un “castigo del diavolo”. Quanta responsabilità in meno, no? Colpa del diavolo, mica di Riina.
E la questione, poi, non attiene solo agli abusi sessuali perpetrati dagli ecclesiastici. Occorrerebbe parlare della violenza morale, della prevaricazione, dell’indottrinamento coatto e oscurantista, del plagio, dei maltrattamenti sistematici che avvengono all’ombra dei refettori, delle scuole di ogni ordine e grado gestite da personale cattolico. Vi ricordate “La mala educacion”, di Pedro Almodovar, oppure “Magdalene” di Peter Mullan? Han provato a raccontare. Sono situazioni che possono sembrare estreme, lontane, addirittura medioevali: invece sono qui, ora.
Appare interessante, allora, l’esperimento tutto teatrale che la regista romana Fabiana Iacozzilli ha allestito con il suo gruppo, e produzione di Cranpi con altri sostenitori.
Il lavoro si intitola “La classe”, ed è una sorta di tuffo nella propria memoria, il ritorno al passato – alla classe delle elementari per l’appunto – in cui una suora era terrore e potere. La regista romana fa una scelta estetica e poetica radicale: usa il teatro di figura, ovvero marionette (belle, di Fiammetta Mandich, sua anche la funzionale scenografia), ben manovrate a vista, per rievocare quattro minuscoli bambini, quattro abitanti di quella classe spaventata a tutto. Bambini soggiogati, bloccati, tremebondi, colpiti reiteratamente da una suora, Suor Lidia, arcigna e ossessiva: madre-padrone, dispensatrice del bene e del male, fumosa barriera contro ogni crescita, ogni libertà, ogni gioco.
Lo spettacolo procede sul filo della rievocazione e della documentazione: si ascoltano voci fuori campo, interviste fatte dalla regista a quelli che si presumono essere ex compagni di scuola. Ricordano, ridono, stigmatizzano, elaborano o provano ancora a elaborare i traumi subiti nell’infanzia.
In scena, intanto, si evocano e rivivono momenti topici della giornata in classe: i compiti, i pensierini, oppure la ricreazione, passata bloccati, immobili, in un angolo di un cortile a guardare, senza toccare, un pallone. Il terrore incombe su tutto e tutti, in un clima buio, asfissiante, in cui anche lo spettatore rimane immischiato, claustrofobicamente intrappolato. È una discesa negli abissi, cui fa da contraltare visivo il candore giocoso, netto, adamantino delle marionette. Dolorosissimo.
Seppure nel succinto sommario che ne ho fatto, si capisce quanto questo lavoro sia un omaggio, dichiarato, alla storica “Classe morta” di Tadeusz Kantor, il grande maestro della scena polacca, uno dei genii del novecento teatrale. In quest’ultimo, il ricordo strettamente personale diventava memoria condivisa e rito collettivo, dal microcosmo del villaggio natio, della sua classe scomparsa si approdava a una dolente metafora della carneficina bellica, della distruzione di un mondo. Quei frammenti di memoria, quei fossili sedimentati sotto strati di violenza, emergevano al bagliore caduco del ricordo con una nostalgia struggente.
Nello spettacolo di Iacozzilli, il flusso del ricordo si interrompe invece bruscamente per tornare all’oggi, con una scelta drammaturgica che non sto a rivelare, dal momento che è uno dei cardini attorno cui gira lo spettacolo. Ma è una virata – pur necessaria nel ritmo e nell’economia dello spettacolo – che, a mio parere, rischia di personalizzare eccessivamente, ovvero limitare, quel che invece poteva essere ulteriormente aperto alla condivisione. Diciamo che la regista ha scelto di andare in profondità, verticalmente, nello scavo di sé, anziché orizzontalmente nella denuncia sociale: evidentemente quella era l’urgenza, la spinta propulsiva della creazione. Il contagio del germe della violenza, le conseguenze della sofferenza in chi l’ha subita, sono temi che questo “docupuppets per marionette e uomini” affronta con forza.
E certe scene – gli schiaffi sugli zigomi, le gambe che tremano – rimangono indelebili. Quante di quelle “suorine” (chissà perché usiamo sempre questi vezzeggiativi) sono come la protagonista di questa storia? Quanto è faticoso diventare adulti, crescendo sotto i colpi degli adulti?
Nelle belle luci di Raffaella Vitiello, con i suoni di Hubert Westkemper, a gestire e dar soffio vitale alle marionette sono bravi Michela Aiello, Andrei Balan, Antonia D’Amore, Francesco Meloni, Marta Meneghetti. Visto al teatro Argot di Roma, lo spettacolo ha avuto tanti, commossi, applausi.
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