Teatro

Quel giovanotto di Rossini

29 Febbraio 2016

Oggi è il suo compleanno: il 29 febbraio 1792, a Pesaro, è nato Gioachino Rossini. Auguri!

Ne compie 224, ma dal momento che il 29 arriva solo ogni quattro anni, in realtà Gioachino è un vigoroso signore che ne festeggia appena 56: pieno di forza e di verve, capace ancora di stupire e divertire.

E con l’occasione, ha organizzato una bella festa: la ripresa di uno dei suoi capolavori, Il Barbiere di Siviglia, andato in scena per la prima volta a Roma esattamente 200 anni fa.

Era il 1816, all’epoca regnava Pio VII, e il 20 febbraio, si alzava il sipario del teatro Argentina  su Almaviva o sia l’Inutile precauzione. Fu un fiasco al debutto, ma – sembra – già dalla seconda replica quel che sarebbe diventato il più noto Barbiere del mondo veleggiava verso l’immortalità. Erano tutti arrivati alla prima con l’affanno: compositore, librettista, cantanti. Tutto fatto in fretta, in mezzo a mille problemi. Però le stimmate del capolavoro c’erano: le ali erano pronte, bastava spiegarle per volare.

Da 200 anni Il Barbiere di Siviglia è l’opera buffa per eccellenza, è la festa dell’allegria e dell’immaginazione. Gioachino, però – e lo sanno bene al Festival che ogni anno Pesaro gli dedica – aveva animo da grande compositore: da tempo sono state “riscoperte” le sue opere serie, e in riva all’Adriatico, ogni agosto, c’è spazio per allestimenti che superano l’immagine del Rossini buffo. Basti ricordare, per citarne solo una delle tante, il sontuoso Viaggio a Reims nella versione Abbado-Ronconi. Ma non c’è scampo: il Rossini più amato, quello patrimonio dell’umanità, è l’autore del Barbiere – o della Scala di seta, della Cenerentola, del Gugliemo Tell, dell’Italiana in Algeri

Un gigante, insomma, che aveva scelto di trasferirsi a Parigi (dove pure non ebbe vita facile) proprio per il respiro europeo, internazionale, delle sue creazioni.

In questo clima di compleanni e di feste, ben ha fatto il Teatro dell’Opera di Roma a celebrare il maestro.  Prima con Cenerentola (nella versione con la regia di Emma Dante, di cui abbiamo dato conto) e ora con una vivacissima nuova edizione del Barbiere affidata alla regia di Davide Livermore. Non altrettanto, ed è un peccato, ha fatto il Teatro Argentina: magari avrebbe potuto lasciare uno spazio nella fitta programmazione al Barbiere di Siviglia di Beaumarchais, che è traccia e struttura portante del libretto di Cesare Sterbini.

Davide Libermore – da poco sovrintendente e direttore artistico al prestigiosissimo Palau de les Arts di Valencia – ha affrontato di petto il confronto con l’opera-mondo rossiniana. Consapevole del peso della tradizione, così come dei tanti tradimenti già fatti, tiene in bilico una narrazione scenica che è festosa allegoria, invenzione rutilante (con qualche eccesso), meta-narrazione che fa consapevolmente l’occhietto alla micro e alla macro storia. Giocando bene con le meravigliose illustrazioni di Francesco Calcagnini, con i video di D-Wok, e con i fantasmagorici costumi di Gianluca Falaschi, il Barbiere di Livermore si muta in un’ironica cavalcata attraverso le Rivoluzioni. Da Beaumarchais, insomma, fino al 1968 e oltre, addirittura fino a oggi: tagliando teste, allegramente, ai dittatori passati e presenti. La rivoluzione – dice il regista – è già tutta nella pregnante forza del testo originale, e non solo simbolicamente, ma anche, chiaramente, nella trama, nella vicenda con la palese rivolta di Rosina all’opprimente “custodia” di Don Basilio.

Il barbiere di Siviglia; regia, scene e luci di Davide Livermore ®Yasuko Kageyama
Il barbiere di Siviglia; regia, scene e luci di Davide Livermore ®Yasuko Kageyama

In questa carrellata rivoluzionaria, però, c’è anche il modo di evocare (o sbeffeggiare) tutte le ri-letture dell’opera stessa: cambiando di costume in costume, i protagonisti approderanno agli anni Cinquanta del Novecento, più futuribili che non filologici. Un viaggio nel tempo, dunque, inseguendo sempre l’estro vitale di Figaro e del mondo fiabesco (ma in questo caso una fiaba alla Tim Burton!) di Siviglia.

Tutto sembra, allora, spinto ad un eccesso visivo quasi espressionista, che ha però il sapore struggente di un circo d’antan: una rutilante vertigine visiva ironica, spesso grottesca, sempre esasperata, in cui non mancano invenzioni davvero comiche.

Nella serata che mi è toccata in sorte, sulla scena era il secondo cast, comunque nell’insieme di robusta qualità: Teresa Iervolino, soprattutto, come Rosina si è strappata più di un applauso; mentre han tenuto bene (un po’ altalenanti) Merto Surgiu come Conte d’Almaviva, Omar Montanari come Don Bartolo e Julian Kim nel ruolo protagonista che ha fatto il suo lavoro in modo dignitosissimo.

In buca, l’armoniosa direzione di Donato Renzetti spinge al meglio l’Orchestra del Teatro: eleganza, ritmo, ariosità. Bene anche il coro diretto da Roberto Gabbiani.

Ma i lunghi applausi del pubblico andavano, forse, ancora a lui: fosse stato a Roma, Gioachino Rossini si sarebbe divertito. In fondo, da quella fredda sera del febbraio 1816, la città non ha smesso di amarlo.

 

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