Teatro
Quel Dioniso ringhia troppo
Io non sono credente. Non ce la faccio proprio ad aver fede. Ma se dovessi credere in una qualche divinità, sceglierei Dioniso, gli darei fiducia. In fondo ci ha fatto scoprire una bella cosa come il vino, è molto indulgente sul piacere, e poi – si sa – il teatro gli deve molto. Penso sia ancora più interessante, affascinante, commovente assistere a una tragedia a Atene che non a una messa in Vaticano.
E per quanto sia un dio vendicativo e carogna – come del resto tutti gli dei – ha in sé sempre qualcosa di buono: a partire dal fatto che il suo culto è affidato a delle sacerdotesse, e non a quel mondo tutto maschile di pretini nerovestiti; ed è impregnato di quella vitalità, quell’euforia, quella frenesia di gioia che nonostante tutto continuiamo a inseguire.
È interessante, poi, come sia indivisibile al suo opposto, il noioso Apollo. Dionisiaco ed apollineo sono risvolti della stessa medaglia, sono volti possibili dell’essere quotidiano, sono miti che si incarnano – sempre di nuovo – nella prassi quotidiana. Noi stiamo in mezzo e, potendo scegliere, strizzeremmo volentieri l’occhio al vecchio Dioniso, a quello sbruffoncello, arrogante e beone che ama la vita.
Allora, un po’ per devozione, un po’ per curiosità, sono andato al Teatro Vascello per vedere Dionysus, il dio nato due volte che il regista Daniele Salvo ha tratto dalle Baccanti di Euripide. Il titolo mi intrigava, faceva pensare a quella sorta di festa hippy che fu Dionysus in 69 di Richard Schechner, apoteosi rivoluzionaria del Performance Group che, a rivederlo oggi (ad esempio nel film realizzato da Brian De Palma) con quel clima tra orgia, trance, coinvolgimento e seduta psicoanalitica, un po’ ci fa sorridere come un pezzo di modernariato, e un po’ ci sembra ancora molto più avanti di tanti spettacoli di “drammaturgia sensoriale” o di “spettatori partecipanti” che vediamo sulle scene italiane.
Sono dunque salito al Teatro Vascello inseguendo ancora una volta il vecchio dio e le sue feroci Baccanti, superando qualche diffidenza iniziale: a me il teatro del regista Daniele Salvo di solito non convince. Non ho visto tutta la sua produzione, va da sé, ma quanto basta per arrivare a maturare con serenità questa valutazione. Siamo distanti, e va bene così, nulla di male.
Lo trovo didascalico, ridondante, eccessivo. Ma non in senso barocco, che pure ci starebbe, quanto piuttosto in un cercare di stupire a tutti i costi, nella costante sottolineatura fantascientifica dell’effetto che a me, però, lascia indifferente se non irritato. Questione di gusti: e infatti i suoi spettacoli sono sempre affollatissimi e applauditi. Ha, Salvo, la capacità evidente di raggiungere il pubblico (forse proprio per quella sua voglia di stupire) che risponde con gioia.
Non fa eccezione questo Dionysus, stra-esaurito e molto ben accolto da spettatori e critica.
Per quel che mi riguarda, dico subito, riconfermo il mio giudizio: tutta quella roboante “teatralità” – verrebbe da dire “teatraloso”, seguendo la moda della Crusca – a me affatica e un po’ m’annoia. Ma, ripeto, probabilmente ha ragione lui, perché gli spettatori del Vascello si sono divertiti, applaudendo lo spettacolo.
Ci sono stati anche per me, comunque, motivi di interesse. Intanto perché, nell’affollata platea, ho incontrato tanti giovani, appassionati, attenti, cui evidentemente il codice fumettistico di Salvo arriva in modo diretto e funzionale: bello origliare le loro interpretazioni all’intervallo.
In secondo luogo perché ho visto una generosa partecipazione del coro delle Baccanti: attrici tutte brave e belle e onestamente aderenti al progetto. Instancabili nel correre da di qua a di là e viceversa, come se avessero una ragione per farlo; nel ruggire e nel muoversi ferinamente; nel dire e nel gridare per far paura. Le voglio citare: dalla brava e intensa Elena Aimone a Giulia Galiani, Annamaria Ghirardelli, Elena Polic Greco, Francesca Mâria, Silvia Pietta, Alessandra Salamida fino a Melania Giglio, che si staglia anche nel monologo del Secondo Messaggero.
L’altro aspetto che mi ha fatto pensare, nell’interpretazione febbrile di Ivan Alovisio, è il sostanziale “coming out” di Penteo, che qui – vestito in versione Matrix – diventa ancora più smaccato, con quel suo titubante ma affascinato travestirsi da “mamma” che lo porterà alla violenta fine, sbranato dalle baccanti. Una parola, infine, merita senza dubbio Manuela Kustermann, padrona di casa, che dà corpo e voce a Agave con delicatezza e quieta follia.
Per il resto, mi è mancata una lettura critica su Baccanti, che giustificasse quantomeno quel cambio di titolo: la materia è difficilina, anche solo sull’ultima battuta di Euripide ci si potrebbe stare anni a discutere. Temo non basti il mescolare tribale e futuribile per dir qualcosa. E ho trovato, in generale, quella saturazione di cui dicevo, quel costante e snervante sopra le righe, quel procedere per accumulo, tra video proiezioni e flussi sonori, gesti ridondanti e denti in mostra per ringhiare. Ma con stilemi interpretativi un po’ random: ognun per sé e Dio(niso) per tutti. Non fa eccezione lo stesso Salvo nel ruolo protagonista che, con un look alla Capitan Harlock, branciaroleggia troppo.
Diceva (più o meno) Roberto Longhi che non esistono quadri “brutti”, semmai esiste la realtà dei quadri stessi. E forse vale anche per la prosa. Eppure ripensavo a quella cosa strana che è il rito a teatro: a come lo si possa evocare oltre che rappresentare. A volte basta poco. Ma la realtà, pare proprio, è cambiata.
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