Agricoltura
Quanto è FICO quel Giardino
Chissà che ne penserebbe Anton Cechov di Eataly…
La domanda non è peregrina. Basta andare a vedere il travolgente Giardino dei ciliegi, trent’anni di felicità in comodato d’uso prodotto da EmiliaRomagna Teatro, nella versione della compagnia Kepler-452 per interrogarsi sulla faccenda. Nella pletora di riscritture cechoviane – ne parlavo anche qui -, il giovane e spavaldo gruppo bolognese fa un’operazione estrema, rischia, ma con successo.
Dà vita – è il caso di dirlo, perché di vita si tratta – a una operazione teatrale, drammaturgica, scenica, sociale, che non sarebbe dispiaciuta a Milo Rau, ai Rimini Protokoll, a Roger Bernat: insomma a tutti quei maestri della scena europea contemporanea che non esitano un istante a mettere in corto circuito tempo presente e tempo teatrale, coinvolgendo “testimoni” (come sostiene Stefan Kaegi dei Rimini Protokoll) che arrivano direttamente dal reale, ossia persone che vivono sulla propria pelle, o hanno vissuto facendone esperienza, quel che l’opera teatrale intende trattare o raccontare. Insomma, c’è una “messa in vita” del testo e, in questo caso, dell’autore.
La compagnia Kepler, già artefice del vivace Festival VentiTrenta, accoglie gli spettatori: sono in tre, seduti in proscenio, nella sala piccola dell’Arena del Sole di Bologna, e la cosa curiosa è che il pubblico, entrando, si ferma a salutare, a fare due chiacchiere. Il clima è informale, sereno. Poi gli attori-autori iniziano a raccontare. Volevano fare Il giardino dei ciliegi e, come è prassi del gruppo hanno iniziato a investigare in città quel che poteva rimandare felicemente e direttamente al testo di Cechov. Spunto di indagine, lo dichiarano nel bel libretto di sala curato da Giacomo Pedini: «la scomparsa di un luogo magico, profondamente impregnato delle vite di chi lo abita, per motivi economici». Forse la storia dei murales staccati da Blu per non farne “commercio”, oppure altre ancora: di fatto, ad un certo punto nella fase istruttoria, Kepler si imbatte, letteralmente, nel “Giardino”.
Incontrano Giuliano e Annalisa Bianchi, due persone normali, una coppia appena un po’ stralunata, che vive nell’immediata periferia di Bologna: e sono subito Gaev e Ljiuba. La loro storia è difatti emblematica: i due abitano un casolare dato in comodato d’uso dal Comune, e nel tempo – per passione e per “lavoro” – ne hanno fatto una sorta di arca di Noè. Animali di ogni specie, a partire dai piccioni che Giuliano caccia per conto di veterinari o del Comune stesso. E poi anche babbuini, cani, una vacca, somari, gatti, poiane, maiali, un falco, un cinghiale allevato, un boa costrictor, un lupo, un pappagallo ara (chiamato appunto Ara), una tarantola, capre e pecore e molto altro. E ancora gente di passaggio, ospiti di varia provenienza. Insomma: non c’erano i ciliegi oltre il Pratello, ma la felicità, quella sì. Una felicità strampalata e originale, durata trenta anni, in comodato d’uso appunto – come recita il sottotitolo dello spettacolo. Solo che, nel 2015, è arrivato il commercio, è arrivata la visione pragmatica di Lopachin, che si incarna nel sogno espansionistico di Oscar Farinetti, il patron di Eataly. Che lì, su quella terra a ridosso del centro di Bologna, impianta la sua nuova creatura: FICO, la Fabbrica Italiana Contadina. Giuliano e Annalisa sono sgomberati, devono lasciare il loro “giardino”, gli animali, la loro vita. Devono lasciare tutto: prima a lungo ospitati in una sorta di albergo-comune, il Galaxy, poi finalmente ricollocati in un piccolo appartamento.
Eccolo qua, il dramma di Cechov, esplosivo come non mai: come se incontrassimo i personaggi del Giardino molto dopo, quando i giochi sono fatti, gli alberi tagliati, i lotti già venduti e abitati. È quasi un sequel, certo è un lungo flashback questo spettacolo: che mantiente intatta quella sua nostalgia, quell’amaro e consapevole sguardo sulle cose della vita che passa che è di Anton Cechov. Non c’è riscrittura che tenga, qui è la vita che parla. Come ha ben scritto Massimo Marino sul Corriere di Bologna: lo spettacolo « fa ritrovare un teatro capace di dare brividi di emozione che si avvicinano a quella profonda divaricazione tra l’avere (o il fingere) e l’essere».
La storia mescola infatti verità e finzione drammaturgica, racconto ed evocazione. Annalisa e Giuliano sono struggenti, commoventi nella loro immediatezza spiccia: guidati con garbo dagli attori di Kepler-452, in una scena che è fatta di trovarobato e anticaglie (scenografie di Letizia Calori, ottimamente illuminate da Vincent Longuemare), dove il “teatro” fa un passo indietro, consapevole di lasciare spazio a una urgenza autentica, sentita. Così, nella parabola del Giardino cechoviano, entra oggi la prosopopea del capitalismo applicato al prodotto genuino, alla “fabbrica contadina” – curioso ossimoro per narrare una fetta di mercato in espansione. Si ride anche un po’ in questa vicenda, ascoltando i racconti impastati di accento bolognese di Giuliano, di un riso amaro che cela timide lacrime che non si trattengono quando Annalisa, con dignità e e semplicità e fermezza, racconta l’umiliazione e la confusione dello sgombero, in una giornata di Novembre, sotto la pioggia.
Non ho ancora citato i componenti di Kepler-452, attori in scena con Annalisa e Giuliano, guide e interpreti nei panni di loro stessi oltre che artefici dell’intera operazione. La regia, pulita, rispettosa e intelligente è di Nicola Borghesi, che spiega, illustra, accompagna e soprattutto – in apertura di spettacolo – contestualizza il percorso fatto per questo anomalo Giardino, svelandone un valore ulteriore, generazionale, politico, culturale. Con lui la brava e intensa Paola Aiello, la bella voce roca e occhi limpidi, coinvolgente in un ampio racconto sul finale, e infine Lodovico “Lodo” Guenzi, diventato improvvisamente una star come cantante de LoStatoSociale, il gruppo che ha sbancato l’ultimo festival di SanRemo. Guenzi è un attore, e un bravo attore – e qui lo dimostra appieno vestendo i panni scomodi di Lopachin l’arricchito. Ma sa ricavarsi un momento di autoironia, e aspra consapevole autocritica, evocando proprio la hit sanremese ascoltata, per caso, all’interno di FICO.
Questo Il giardino dei ciliegi, trent’anni di felicità in comodato d’uso è curioso, vitale, arguto, aguzzo, imperfetto. È il segno di un tempo aspro, è la risposta, tutta teatrale, alla crisi del nostro mondo macabro.
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