Teatro

Quando la drammaturgia ferma la vita sul palco

28 Maggio 2017

La vita ferma è innanzitutto condizione di qualsiasi spettatore bloccato in una platea di teatro, prima ancora che l’ultimo spettacolo scritto e diretto da Lucia Calamaro, in tournée da un anno con meritato successo e fino a stasera al Teatro Franco Parenti di Milano. I testi di questa magnifica drammaturga andrebbero sempre attraversati abbandonandosi come a un piccolo sonno. Sonnambulismo da seduti con lo sguardo che si schiude sui frammenti di vita in scena: i personaggi appaiono come amplificazioni di un’interiorità confusa e preziosa, i dialoghi come giri a vuoto per costruire e ricostruire il senso della loro presenza sotto forma di trama.

Così la Calamaro affronta i temi al centro dei suoi testi disperdendoli in un arcipelago di dettagli, in cerca di discrete ma tutt’altro che silenziose metafisiche di scena: dalla depressione nell’Origine del mondo, alla disoccupazione esistenziale di Diario del tempo, fino all’elaborazione del lutto di quest’ultima sua prova, con presenza simultanea di morti e vivi che si interrogano reciprocamente, preoccupati di rassicurarsi sulle proprie condizioni umane e non più umane.

Questa sonata di fantasmi in tre atti è una brillante e ironica indagine sul ricordo e le sue vertigini. Ricœur, de Certeau e Benjamin sono i custodi citati di un processo di ripiegamento della storia dall’universale al particolare: la ricostruzione che conta non riguarda più il macro ma il micro, non popoli e stati ma individui unici, con le miserie e nobiltà delle loro vicende.

Dunque è la fallibilità della memoria il cruccio più indigeribile di chi non c’è più, che si dovrà accontentare di una sbiadita, parziale ricostruzione di quel che è stato da parte di chi è rimasto. Ma forse sono i vivi i veri delusi di questa storia, assuefatti dal tempo che scorre senza mai fermarsi a dispetto delle richieste e dei trucchetti quotidiani per procrastinare. Finché non diventa inevitabile cedere alle autodifese imposte dagli anni e alle benefiche rimozioni: così il lutto elaborato diventa un’ingiustizia e la capacità di andare avanti un’inevitabile stortura morale.

Sempre chirurgica e divertente, la Calamaro impressiona per la sua inarrestabile inventiva, per i ritmi sconvolgenti imposti ai suoi attori – straordinario Riccardo Goretti, vero stand-up comedian, ma anche Simona Senzacqua e Alice Redini – per l’intensità dei monologhi confessati al pubblico con commovente sincerità. Folgorante l’avvio dello spettacolo: l’andare e venire di marito e moglie per rimandare la separazione, la loquacità radicale che tradisce l’inadeguatezza di questo Orfeo con accento toscano, la muraglia di scatoloni come protezione dalle insensatezze del mondo esterno. Colpisce soprattutto l’inutilità di qualsiasi razionalizzazione: non ci si deve chiedere la logica di questo laico collegamento con l’aldilà perché il lutto non si addice proprio a nessuno.

E anche se il resto dello spettacolo si cristallizza nelle sue giravolte verbali e forse non emoziona quanto prometteva nella prima parte, l’atmosfera beckettiana della Calamaro si diffrange nel delicato gioco grottesco di questo suo teatro del quotidiano, che ci invita sul palcoscenico col pensiero e ci avvita ai personaggi con il loro dolore.

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