Teatro
Quando il teatro è un bastardo
Si è chiuso orami da qualche settimana il Festival Teatro Bastardo di Palermo, ma vale la pena parlare Giovanni Lo Monaco – drammaturgo, regista, scrittore e direttore artistico del Festival – per puntualizzare alcuni temi, alcuni aspetti di questa giovane e coraggiosa manifestazione che, in brevissimo tempo, sta diventando una realtà estremamente interessante. Animato e gestito da uno staff di bravissimi operatori, generosi e accoglienti, il Festival si segnala, infatti, per una scelta artistica mirata che, a cavallo tra teatro e cinema (qui ho visto l’anteprima del bellissimo film Una mujer fantastica, di Sebastian Lelio, adesso in sala), traccia nuove mappe in termini di contaminazioni e ricerca. Naturale, però, aprire la chiacchierata con Lo Monaco prendendo spunto dal nome del festival, certo originale: perché “Teatro Bastardo”?
«Il nome? L’idea è venuta tentando di tradurre, di trovare un equivalente al termine inglese Queer. Il gioco è stato, infatti, sulla ri-semantizzazione in chiave positiva di un termine connotato spesso negativamente, come accade nella cultura anglofona, in cui il termine “queer” sta a indicare qualcosa di eccentrico, strambo, strano. Una certa letteratura scientifica o cinematografica, poi, l’ha ridefinito come sguardo sbieco, divergente, sulle cose. “Bastardo”, allora, mi sembra una bella parolaccia, chiama in causa chi non vuol essere necessariamente politically correct. Insomma, in questo gioco, tanto per fare un esempio, i “finocchi” non sono “diversamente etero”! Allora, con un malcelato orgoglio rivendichiamo il nostro essere “bastardi” per un festival non poteva che nascere qui, a Palermo. La nostra è una città segnata dalla storia come crocevia di culture, di incontri, di contaminazioni. Francesi, spagnoli, arabi, ebrei sono tutti passati di qua. Siamo “bastardi” nel dna. E in città si respira ancora quest’aria: non è un caso che la Sicilia continui ad accogliere i flussi dei migranti. Allora c’è un aspetto positivo dell’essere bastardi, e su questo lavoriamo. Ci piace».
Il festival si apre a un sistematico sguardo e a una riflessione non solo sulla diversità ma anche sulla marginalità…
«Abbiamo certo connotato questo festival dal punto di vista contenutistico, ma il nostro non è un festival dedicato esclusivamente alla marginalità o alla diversità. Può capitare che ci si occupi degli orientamenti di “genere”, degli orientamenti sessuali, ma la “bastardaggine” riguarda anche e soprattutto le poetiche, ossia la stessa struttura teatrale, dunque il come si fa teatro. Ben vengano dunque le performance, le contaminazioni del contemporaneo, ben venga chi non ha paura di sbagliare. Penso a una artista come Chiara Guidi, quando parla del suo metodo “errante”. Errante nell’accezione di chi si muove, cerca percorsi nuovi – e il nostro festival vuol fare proprio questo – ma errante anche nel senso di chi sbaglia, di chi commette errori, di chi ha il coraggio di errare».
In Italia si discute molto delle cosiddette teorie di genere. Teatro Bastardo cosa fa?
«La nostra è una posizione necessariamente politica. Siamo nati come “costola” del Sicilia Queer Film Festival. Naturalmente, allora, abbiamo preso le mosse proprio dai gender and queer studies. Ci siamo confrontati con gli intellettuali di riferimento, da Paul B. Preciado a Judith Butler, ma poi la storia delle rivendicazioni LGBT è diventata una prospettiva più ampia, che abbracciasse tutti i diritti civili, non solo quelli che concernono gli omosessuali. Allora, in Teatro Bastardo non spariscono le specificità, ma vengono inglobate. Abbiamo a che fare con le persone, senza dimenticare le identità. Ciascuno di noi è un “condiminio”, abitato da diverse persone… Il problema cruciale rispetto ai temi della marginalità, della diversità, sia sempre quello di prospettiva. Lo scivolone più facile da fare è combattere lo stereotipo, alimentandone un altro, ossia creando un contro-stereotipo, far sentire in colpa chi è “diverso dal diverso”. Invece, quel che dovremmo provare è ad allontanarci, decentrarci rispetto alle logiche stigmatizzanti. Credo sia opportuno. Chiederci ancora, insomma, come guardare la marginalità? Riuscire a vedere la realtà non dal di dentro, ma dal di fuori. Come la vede chi si relaziona con la diversità. Il problema, infatti, è spesso in chi guarda, nel come guarda. Si tratta di lavorare su questa prospettiva, come del resto hanno fatto già in passato molti degli studi queer e gender. Non pensare che il proprio punto di vista sia quello definitivo. Ma anzi lasciarsi contaminare, imbastardirsi».
E forse è proprio questa la grande lezione che può venire dal Festival Teatro Bastardo…
«Quel che vorremmo, è cogliere la ricchezza della diversità. Il problema, in Italia, c’è, esiste. Non possiamo far finta di nulla. Basti pensare che le unioni civili sono state approvate solo da pochissimo. Serve certamente un “riflettore” su questi temi, perché simili realtà non vanno messe in ombra. È giusto rivendicare il diritto a farsi vedere: per farsi sentire occorre fare la voce grossa, o anche fare i pride. Tutto va bene pur di tenere alta l’attenzione, per far vivere la minoranza. E ben venga la pluralità dei linguaggi, dei codici, dei teatri».
Come è strutturato il festival? Con quali finanziamenti agisce?
«Abbiamo cominciato con un finanziamento dal basso. Soprattutto con un mio finanziamento dal basso: mi sono venduto la macchina per far partire il festival! Ma abbiamo trovato subito l’interesse di strutture importanti, come il Teatro Biondo, il Museo Pasqualino, in un primo momento il teatro Libero, e il Comune. Tutte strutture che poi sono diventate partner ufficiali e che ci aiutano e fanno crescere. Con pochi soldi siamo riusciti a fare un cartellone che ci sembra buono, cercando appunto sinergie, anche creando reti. Non è facile superare l’autoreferenzialità di tanti: è complicato riuscire a dialogare, anche localmente, proprio perché ci sono tanti “ismi”, tanti particolarismi. Magari due persone possono dialogare con te, ma non dialogano tra loro. È la difficoltà maggiore anche in teatro, e temo sia trasversale in tutta Italia, non solo palermitana».
Il programma di questa edizione era particolarmente interessante. Come ha risposto la città? il pubblico?
«Siamo sorpresi della crescita del pubblico, anche rispetto lo scorso anno. C’è stata una risposta incredibile. Per lo spettacolo di Roberto Latini abbiamo visto file lunghissime al botteghino! E sono rimaste fuori oltre 200 persone. È vero, il nostro festival è gratuito. La cosa per me sorprendente, infatti, è che se il Comune di Palermo finanzia una iniziativa, richiede la gratuità. Dunque la cultura è pagata dall’Amministrazione, è un regalo del Comune. Ma il discorso politico che facciamo, per per il quale ci siamo scontrati, è invece di avere un prezzo del biglietto. La cultura si deve pagare, il biglietto, anche “politico” deve esserci».
Quali progetti futuri per “Teatro Bastardo”?
«Vorremmo tentare di portare a Palermo un teatro ipertcontemporaneo, spettacoli che qui si vedono di rado, che stentano ad arrivare in città. Un teatro performativo che sia davvero codice del nostro tempo. Vorremmo che questa fosse sempre più la cifra del nostro festival, anche affrontando i “classici” ma in una prospettiva d’oggi. Però, procediamo per piccoli passi, dobbiamo ancora imparare. Non vogliamo certo sembrare presuntuosi nel confronto necessario che le altre realtà della città. Bastardi e coraggiosi, sì, non presuntuosi».
Devi fare login per commentare
Accedi