Teatro
“Putte” oltre l’orlo di una crisi di nervi
Un gruppetto di putte malignaze in piena crisi di nervi – l’orlo superato da un pezzo – debuttano nel Goldoni dark di Giorgio Sangati, rigorosamente in dialetto veneziano con sovratitoli. L’allievo di Ronconi dimostra talento e personalità adeguati a concludere il progetto del suo maestro: queste Donne gelose sono quasi un secondo, anzi un terzo atto della bipartita Lehman Trilogy, ultimo capolavoro del regista scomparso.
E se la parabola discendente dei fratelli Lehman si fermava con in scena più morti che vivi, tutti in attesa di un telefono che decretasse il fallimento della loro società, questo spettacolo prosegue ripartendo direttamente dagli inferi che lì si designavano.
Difatti la claustrofobica, lugubre Venezia Bauhaus di Marco Rossi è senza dubbio un girone dantesco. Suggestivo il corridoio d’acqua che attraversa il palco per il lungo, solcato da una pedana: è l’esterno, lo stretto calle su cui sfilano in bilico gli attori, con le luci che si riflettono sull’acqua increspata e le voci che risuonano con riverberi liquidi. Ma l’azione si svolge soprattutto al di qua del canale, al centro del Teatro Studio, su un largo quadrilatero nero.
Il contrappasso in questa bolgia è la gelosia del titolo, con l’irrazionalità dei personaggi che si infrange contro le implacabili geometrie scenografiche, mentre il dialetto stretto, insieme al ricco repertorio espressivo degli attori, orna stanze senza mobili e palazzi senza finestre, a ricreare un immateriale gotico veneziano.
Gli abiti infangati non permettono soluzione di continuità tra il pavimento scuro e le figure degli attori: in questo sestiere tutto è umido, marcio e tutti sono invischiati. È come se nulla accadesse per davvero; ogni dialogo è frainteso, la gente si spia e mente, porta maschere anonime o non nominabili: i mariti giocano, le mogli spettegolano e la vedova Lugrezia capisce, lei sola, ogni dinamica di questa folle giornata di carnevale.
«L’inferno sono gli altri» concluderebbe Sartre, e qui non ci siamo affatto lontani. Solo che Goldoni è più politico che metafisico: come un Brecht settecentesco egli sancisce la decadenza di una classe intrappolata, condannata ormai a girare a vuoto. Strehler e Visconti furono i primi ad accorgersene, mentre da Fassbinder in poi si è visto persino qualcosa di tetro nei lazzi goldoniani: si capisce allora perché Sangati trasformi la Sarabanda di Haendel – quella di Barry Lyndon – in una vera e propria marcia funebre.
È evidente lo sforzo registico sulla recitazione della compagnia, a cui è richiesta anche l’impresa di recitare in un’altra lingua – è questo il veneziano, una lingua. Nella sezione femminile trionfa la Giulia di Valentina Picello, esplosiva nelle sue pastose, esilaranti esclamazioni. Magnifiche le scene a due con l’altra donna gelosa, Marta Richeldi, entrambe rivali della Siora Lugrezia, virago splendidamente interpretata da Sandra Toffolatti. Ottimi anche i mariti, Paolo Pierobon e Leonardo De Colle, e il Baseggio di Ruggero Franceschini. Completano l’eccezionale cast Sara Lazzaro, Elisa Fedrizzi e Federica Fabiani.
Merita un discorso a parte il commovente Arlecchino in bianco e nero di Fausto Cabra, qui in una versione chapliniana e più che mai malinconica del simbolo stesso del carnevale. Dimenticato nel finale sotto una gelida pioggia invernale, Arlecchino annuncia non solo la fine della commedia, ma la fine della commedia dell’arte. «Ronconi – spiega Cabra – mi diceva che questo Arlecchino era come l’altra faccia della medaglia rispetto a Bobby Lehman: il suo complementare artistico. Perché anche Arlecchino affronta una fine, anche lui è obbligato a dire addio. Solo che se in Bobby la fine è segnata dalla paura della morte, qui c’è piuttosto un’immensa nostalgia della vita. Arlecchino avrà sempre una gran voglia di vivere, ma ormai ha capito che il suo tempo è finito».
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