Teatro
Pueblo di Ascanio Celestini: ancora un viaggio nell’umanità
C’è un momento in cui ho sentito, o forse intuito, o forse ancora creduto di capire, cosa c’è che mi commuove nei lavori recenti di Ascanio Celestini, prima in Laika ora in Pueblo. È una sensazione sfuggente, non legata a una scena specifica, anzi che passa come un soffio ma tocca corde profonde. E come tale è anche difficile provare a tradurla in parole.
L’altra sera Ascanio ha debuttato con il nuovo lavoro, Pueblo, appunto, nell’ambito del bel Romaeuropa Festival 2017.
Celestini è stato programmato – non credo fosse una casualità – al Teatro Vittoria, nel quartiere Testaccio, a Roma. Non credo fosse un caso: il Vittoria è un bel teatro, troppo trascurato dalla città, dal carattere popolare, meno borghese rispetto all’Argentina e forse meno concettuale rispetto, che so, al Vascello o a India. È un teatro che fu regno di Attilio Corsini, maestro di un’arte comica, all’antica italiana, e del gruppo Attori&Tecnici.
Ascanio al Vittoria ci sta, sentimentalmente, bene: sta bene a Testaccio, poco lontano dalla casa di Gabriella Ferri e da quella di Elsa Morante. Sta bene in quel clima di popolarità ancora vera, diffusa, non troppo imbarbarita o “geneticamente” modificata, come dichiarava affranto Pasolini. E insomma, in quell’aria di festa antica, di racconto di piazza – mentre lui, Ascanio, accompagnato alla fisarmonica da Gianluca Casadei (e dalla voce fuori campo del figlio Ettore Celestini, mentre in Laika era Alba Rohwacher) con un ritmo superaccelerato raccontava – io pensavo a quel che mi fa commuovere.
Ed è il fatto che Celestini, in questi ultimi lavori, si ostina a parlare di speranza di quelli che non hanno speranza. Dell’ostinata, umana, faticosa ricerca di una briciola di felicità, di benessere, di gioia in chi proprio non ha più nulla, in chi è ai margini e dovrebbe aver, da tempo, rinunciato a tutto.
Nel film Viva la sposa, poi in Laika, e ora in Pueblo, Celestini muove la sua narrazione dal contesto (lo spiega bene Simone Nebbia recensendo lo spettacolo) per arrivare alle persone. Definisce subito il clima, il luogo: e sono luoghi emblematici della surmodernità, di questi tempi liquidi e sfranti. Il grande magazzino, il centro commerciale, la periferia della città e dell’umanità. Poi si focalizza sulle anime che girano sparute in quegli spazi. E ci trascina a incontrarle, ad ascoltarle.
In Laika era un miracolo, laico appunto, a tessere le mille trame intrecciate che componevano quel racconto. E da quelle suggestioni parte Pueblo, quasi uno spinoff, un sequel rovesciato, cambiato nel punto di vista. La struttura è la stessa, l’orizzonte di riferimento è lo stesso, per quanto siano altri i personaggi, altre le storie, ma sempre legate a doppio filo all’ambiente, a quel mondo di marginalità disperate e allucinate, romantiche e poetiche, illuse ancora e sempre di poter sperare in qualcosa di nuovo. Una sensazione vissuta, sentita, provata, di tutti e ciascuno.
Nelle vicende misere del narratore-dio (che tutto osserva e si rivolge a un assente Pietro per raccontare); in quelle di Violetta, chiusa in casa con la madre o cassiera al supermercato; nella vita di Domenica, barbona dall’esistenza dura eppure innamorata di Said, l’immigrato che perde tutto alle macchinette da gioco; e poi nello zingaro di otto anni, nelle suore, e ancora in tutte gli altri personaggi che passano e si incontrano, Celestini evoca un popolo minuto, dimenticato. Dà voce a quelli che non ascoltiamo più.
Ma la denuncia, l’afflato politico che pure hanno connotato il teatro di Celestini (e Pueblo non fa eccezione, anzi) mi sembra si arricchiscano sempre più di una prospettiva ampia, aperta. Non è bonaria, consolatoria né, tanto meno, ecumenica. No, non c’è compassione o commiserazione. Semmai, è solo – forse e semplicemente – un approccio più maturo, più comprensivo, capace di abbracciare in uno sguardo empatico le miserie dell’umanità e trovarvi poesia, gentilezza, candore, dignità, pudore. È la vita: anche se mancano – avrebbe detto Georges Perec – le istruzioni per l’uso.
I morti, i vivi, i poveri, i sognatori, i disperati, i persi, gli ubriaconi, le feste e i funerali: l’affresco popolare e popolano di Celestini viaggia ben oltre i livelli del melodrammatico o del neorealista, si struttura in un racconto dal ritmo vorticoso, surreale, vibrante, divertente, irriverente. Scarta continuamente, apre e svela, chiude e butta via, mette in fila poesia e turpiloqui, canzoni e parolacce: giullare, si potrebbe dire, o “santo bevitore”, Celestini coglie dettagli della quotidiana tragedia, ne fa brillare la bellezza, ne svela la speranza mai rassegnata, appunto. Così, quando meno te lo aspetti, ti trovi di fronte all’ostinata ricerca della felicità, dei personaggi o degli spettatori, poco importa. E commuove. Allora in quel mare di macerie e di dolori, fa capolino un sorriso, vero e vivo. Ingenuo e speranzoso. Come quello di una bambina fresca, pulita, gli occhi grandi, la vita davanti.
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