Teatro
Prove (e tecniche) di drammaturgia
Prove tecniche di drammaturgie. Nel bailamme romano – mille festival in contemporanea, che insistono sugli stessi spazi, con le stagioni che incalzano, ma di questo riparleremo – vale la pena segnalare tre drammaturgie originali che, da angolature diverse, provano ad allargare i limiti e i confini della scrittura, scenica o postdrammatica che sia.
Al Teatro Brancaccino, nell’ambito della rassegna Teatri di Vetro, abbiamo incocciato un irriverente Opera Sentimentale, testo della giovane Camilla Mattiuzzo, vincitore del premio NDN network drammaturgia nuova, messo in scena con intelligenza dal curioso duo Riccardo Festa-Matteo Angius, cui per l’occasione si è aggiunto, in perfetta sintonia un altro bravo e solido attore come Woody Neri.
Se il testo affronta, seriamente, il tema non facile del lutto, dell’eredità, dei rapporti familiari, anche con slanci lirici e poetici, a tratti eccessivi, i tre performer fanno un lavoro che non sarebbe dispiaciuto al Derrida più decostruzionista. Infatti, prendendo da un lato molto attentamente le intenzioni dell’autrice, operano uno smontaggio sistematico del pathos, che pure fanno riverberare in una lettura parossistica, quasi da standup comedy (che poi è una delle linee di ricerca di Festa/Angius).
Si re-inventano, insomma, come i tre figli della famiglia narrata da Mattiuzzo, e ne fanno tre goliardi, tre sbruffoni-buffoni-porcellini mai veramente cresciuti che mettono in parodia, in “caciara”, in dolorosa gioia il dolore che non dà scampo. Sembrano reiterare quel lutto in un rito privato da cui non si liberano.
Mantenendo la scansione in scene, o quadri, voluto dall’autrice, elaborano una via crucis macabra (tre bare sono la scenografia), in cui la sofferenza, il ricordo, la paura sono però demistificati continuamente. “Un po’ per celia un po’ per non morir”, diceva il poeta del quartiere Monti: Angius Festa e Neri scelgono una strada rischiosa, che non esclude il gioco diretto con il pubblico. Demistificano, smontano, svelano, mostrano, ironizzano, tutto a vista: e in questo procedere cinico, che potrebbe sembrare addirittura contro il testo, fanno invece di Opera Sentimentale un curiosissimo oggetto, strano e straniante, coinvolgente e divertente, sicuramente più e oltre quel che un allestimento pedissequo del dettato drammatico avrebbe comportato. È un salto mortale, un giro della morte che dietro lo sberleffo svela la faticosa esistenza di tutti e ciascuno.
Altro intrigante esperimento è Bye Baby Suite, lavoro concepito per stanze d’hotel e affidato alla interpretazione della bravissima Alessia Innocenti. Spettacolo che, come si dice, gira da qualche anno, ma che ho avuto il piacere di vedere solo qualche sera fa nella splendida cornice dell’Hotel Baglioni Regina a via Veneto. E mai location poteva essere più adatta, dal momento che questo breve affresco porta in scena (o in camera) la vita di una diva del cinema come Marilyn Monroe. Il testo è di Chiara Guarducci e riesce a mettere assieme “biopic” e squarci poetici, fatti e sogni, illusioni e allusioni a una esistenza che è di dominio pubblico ma mai profondamente compresa. Innocenti è mirabile nel dare corpo e toni – rimandando alla voce della doppiatrice italiana della diva – a Marilyn: una sottoveste maliziosa, i capelli biondo platino spettinati, le bottiglie di gin, i flaconi di pasticche. Nella camera d’albergo si consuma una vita, tra sorrisi seducenti e ferite sempre aperte. E se pure il testo risente di qualche caduta retorica, l’attrice è brava nel mantenere teso il pathos, nel tenere le fila di possibilità diverse, accostando tessere di un mosaico che alla fine darà il quadro sconsolato di una esistenza bruciata. Evoca i grandi personaggi che hanno incontrato la dolce Marilyn, da Joe di Maggio a Arthur Miller fino ai “presidenti”, poi richiama alcuni film noti e meno noti. E lascia spazio anche a una riflessione del tutto attuale, quando – senza fare sconti – accusa il sistema di Hollywood, richiamando indirettamente gli scandali d’oggi su abusi e violenze del caso Weinstein. Tutti noi, stretti nell’elegante stanza d’hotel, assistiamo inermi: sappiamo già come andrà a finire. Su quel letto sfatto, si brucia una vita.
Ancora da sistemare, invece, mi è parso l’atteso Heretico, della compagnia Le vie del fool, presentato al teatro India sempre nell’ambito del festival Teatri di Vetro. Simone Perinelli, in scena con Claudia Marsicano, Elisa Capecchi e Daniele Turconi, è autore di un testo fieramente anticlericale, la qual cosa ci trova pienamente d’accordo. Tra giullari indignati e improbabili ballerine, lo spettacolo dà spazio a Giordano Bruno, fa una lettura decisamente non sacra delle Scritture, racconta i meccanismi perbenisti – infarciti di sensi di colpa – che connotano il vivere comune. Usando una sapida ironia, Heretico spiattella in scena processioni e madonne illuminate, statue che piangono e preti superconvinti.
Ma il tutto – almeno per me – deve ancora trovare una piattaforma per decollare: a momenti buoni, ne seguono altri laschi, in cui il ritmo cala, oppure prevedibili per struttura e sentimento cui non giova l’uso del dialetto. Con la Marsicano, pur brava, costretta già a far sempre le stesse cose (credo sia il terzo spettacolo che vedo in cui si ripete) e la candida presenza di Capecchi si incastra in sequenze manierate. Heretico è uno spettacolo che ha avuto, lo sappiamo, una genesi faticosa per responsabilità estranee alla compagnia (la chiusura improvvisa di un festival che doveva produrlo): sono certo che, nel volgere delle repliche, con una vigorosa messa a punto e limatura, toccherà l’obiettivo che si è dato, ambizioso ma legittimo, di smantellare o quanto meno finalmente criticare i dogmatici e ridicoli assunti di Santa Romana Chiesa. Cosa che, anche nel teatro italiano, ben pochi fanno.
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