Teatro
Prima del nuovo spettacolo di Ascanio Celestini
Domani, giovedi 24, Ascanio Celestini presenta a Modena lo studio del suo nuovo spettacolo. Ai Giardini della Filarmonica è in programma Che fine hanno fatto gli indiani Pueblo?, In scena con Celestini, c’è Gianluca Casadei (e Andrea Pesce alla consolle).
Dopo le anteprime al Napoli Teatro Festival, al Pistoia Teatro Festival, al Kilowatt Festival di Sansepolcro e in altre sedi, la versione definitiva di Pueblo debutterà, dal 17 al 29 ottobre, al Romaeuropa Festival 2017.
Qui di seguito, allora, un articolo che ho scritto nel gennaio 2016 per una rivista spagnola, e che forse può essere utile per continuare le riflessioni sul lavoro di questo protagonista della scena italiana e internazionale.
Mi ricordo bene la prima volta che ho visto in scena Ascanio Celestini. Sarà stato alla fine degli anni Novanta, in un piccolo festival nelle Marche. Lavorava, allora, con Gaetano Ventriglia – un pugliese, altro interessantissimo regista e attore – e presentavano uno strampalato, amaro viaggio nel mondo di Pasolini, che si intitolava Cicoria. Era una cosa breve, ancora in costruzione, ma fu folgorante. Dopo lo spettacolo cercai di incontrare i due. Erano giovanissimi, sparuti, entrambi magrissimi.
In quegli anni dominava, in Italia, una corrente di teatro intellettuale e visionario, molto d’immagine. Loro, invece, arrivavano in scena con un racconto popolare, dialettale, che sapeva di “cicorietta ripassata” e di cipolle, di feste paesane e di morte. Sullo sfondo, si evocava Pier Paolo Pasolini, in un clima da Uccellacci Uccellini sempre commovente. Da allora, ho avuto il piacere – direi il privilegio – di seguire il percorso teatrale di Ascanio, abbiamo anche fatto un libro assieme, forse il primo che è stato scritto su di lui (“L’invenzione della memoria”, Principe Costante Editore).
Ma devo ammettere che questo genio del teatro italiano non smette di sorprendermi.
Mi ricordo, ancora anni fa, che il mio ottuso strutturalismo critico mi spinse a consigliarli, con insistenza, di fare un lavoro dedicato a Petrolini. Lui diceva di sì, ma più per assecondarmi che per convinzione reale. E infatti, anziché mettere in scena il Nerone o il Gastone petroliniani, Ascanio se ne uscì con quel capolavoro che fu Radio Clandestina: molti lo ricorderanno, questo straordinario racconto – realizzato con Sandro Portelli – sull’attacco di via Rasella e sulla strage delle Fosse Ardeatine.
Roma, di fatto, è sempre stata al centro delle indagini di Celestini: il quartiere, la borgata sono più che una dimensione geografica, semmai una forza dello spirito, un immaginario sentimentale che si travasa nella scrittura, nella prospettiva, e si fa poesia. Forse per questo, poi, Ascanio ha cercato un confronto con i luoghi dell’alienazione umana, come la fabbrica o il manicomio (in una storia poi diventata un amabilissimo e struggente film, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia).
Forse per questo ha pubblicato un cd di canzoni che sono quasi stornelli, capaci di innovare la tradizione canora romana. Ascanio, nel suo instancabile percorso, ha declinato la sua verve creativa anche in letteratura, con racconti e romanzi; nel giornalismo, in articoli in cui dà voce alle microstorie di un’Italia di provincia; o in televisione.
Sono curiose, le apparizioni televisive di Celestini: mi sembra di poter dire che lui abbia avuto la forza di non piegarsi totalmente al mezzo televisivo, anzi, ha mantenuto il suo stile, la sua cifra di narratore spesso ironico e feroce, di incantantore e affabulatore. È un modo di raccontare – popolare, anche questo, come da tradizione – che è sostenuto da ritmo sfrenato e aperture ad uno sguardo surreale del presente.
Semmai, possiamo dire che la televisione abbia spinto Celestini a concentrarsi ancora di più proprio sui fatti del giorno, sulla politica quotidiana, sulla situazione del Paese. Se nei precedenti spettacoli declinava il suo teatro politico nelle ampie narrazioni favolistiche ancorché sociali, di cui abbiamo fatto cenno, esulando spesso e volentieri da fatti e riferimenti concreti, adesso senza scrupoli cita sempre più i governanti nazionali, chiama in causa i “protagonisti” della sciatta vita politica italiana.
Si inquadra in questo contesto il penultimo spettacolo di Celestini, quel Discorsi alla Nazione, andato in scena al Romaeuropa Festival del 2013, su cui vale la pena tornare. Si tratta di una requisitoria feroce, divertente e disperante: un racconto armato di parole talmente esplosive da lasciare lo spettatore – tutti e ciascuno – assolutamente sgomento.
Discorsi alla Nazione si apre con un lungo prologo, una introduzione affidata a voci registratore di “leader” presenti o passati, voci riconoscibili di politici, di figure dominanti: dall’ex leader “comunista” D’Alema all’amministratore delegato della Fiat, Marchionne; da Khomeini all’eterno Berlusconi. Frammenti di interventi pubblici, arringhe, comizi. Voci che distillano potere, distanza, freddezza politica.
Poi, Celestini, salito sul palco, spiega il progetto dello spettacolo, e lentamente il “prologo” si amplia, si struttura. Viene quasi da pensare al Dario Fo del Mistero Buffo, quando le introduzioni ai pezzi duravano quanto, se non più, dei pezzi stessi. Ascanio, nel suo rigore morale, intellettuale oltre che artistico, si assume con coscienza il dovere di un teatro politico, presente, vivo. Anche il lazzo comico, la battuta, l’ironia, sono sempre aguzzi come spilli, invisibili ma dolorosi: lì per lì non te ne accorgi, ma fanno sanguinare. Celestini, dunque, mentre parla del suo nuovo viaggio creativo, fa entrare, come un fiume carsico che scorre misterioso, un monologo sull’essere di sinistra.
«Io sono di sinistra, però…», dice: e quel “però” progressivamente svela contraddizioni e fallimenti della sinistra italiana. In un crescendo di verosimili paradossi, l’uomo di sinistra si svela sempre più razzista, maschilista, gretto, cattolico ben pensante, borghesuccio. Il paradosso diventa allucinante, accettabile, comprensibile, addirittura condivisibile: nella micidiale tirata, Ascanio non salva nessuno, snocciola le pochezze di un pensiero diffuso, genericamente oppositivo, ma sostanzialmente reazionario, che è il cuore di un’Italia storicamente ed eternamente di destra. Poi, con un leggerissimo cambio di prospettiva, il prologo lascia spazio a brevi monologhi, fotografie di una umanità marginale, chiusa in un fantomatico condominio. Piccoli ritratti di gente, ognuno con la sua storia, tessere di un mosaico di un futuro forse non troppo lontano: Ascanio si immagina una Nazione abbandonata alla guerra civile, in cui piove sempre, un paese allo sfacelo talmente conclamato da non suscitare più reazione o sdegno, ma solo istinti di sopravvivenza e rassegnazione.
Questi brevi monologhi (alcuni dei quali già sentiti proprio nelle apparizioni tv di Celestini) sono intervallati da una surreale conversazione telefonica, che si ascolta fuori campo, di una donna con un portiere: lei è bloccata in casa perché un cadavere ostruisce l’uscita, l’altro, filosofeggiando, le spiega la situazione. Tutti questi “personaggi” (ovvero le tante voci di Celestini in scena) sono in attesa dell’apparizione del nuovo dittatore, e del suo discorso alla nazione.
Diceva qualcuno che gli italiani sono un popolo che ha sempre aspettato un’apparizione dal balcone: l’annunciazione, piazza Venezia, la piazza di San Pietro, e la gente giù, ad osannare. Così appare anche il “neo dittatore” di Celestini: look anni Settanta, parla a nome delle classi dominanti. Di quelli che, sempre nella storia, hanno avuto il potere. E parla alla “sinistra”, ai lavoratori, ai contadini, ai rivoltosi, ai proletari, per spiegar loro – con commovente cinismo – quanto nulla sia cambiato, nonostante le “belle” parole create proprio da loro, da quelli di sinistra: parole come “lotta di classe”, ad esempio, completamente disattesa propri da chi l’ha inventata.
E Ascanio immagina addirittura un “governo Gramsci” – un passo di grande poeticità, addirittura commovente nello spettacolo – in cui il noto politico e filosofo sardo dà incarichi a persone certo diverse da quelle attuali. Moltiplicando il paradosso, Celestini fa ridere proprio svelando i meccanismi della storia: raccontandola dal punto di vista di chi, nonostante tutto, è ancora – e sarà sempre – al potere.
Dunque il tiranno, osannato, sarà nuovo e uguale a chi l’ha preceduto: l’unica differenza è che i predecessori sono morti, e lui, vivo, ne continua il potere. Non c’è speranza, sembra dire Celestini, di cambiare veramente le cose in questa Nazione. Lo dice con coraggio e determinazione, mettendosi in gioco in quella che è anche – e forse soprattutto – una (auto)critica intellettuale ed emotiva che tutto e tutti coinvolge. Non si salva nessuno, qua: e arriva pure a cantarlo, con una canzoncina lieve e ironica che mette fine allo spettacolo. Un motivetto antico, che evoca – curiosamente – proprio Petrolini, che schianta ogni residuo d’ottimismo: un “inno” al bastone e alla carota, veri motori di questa Italietta sgangherata.
Il passo successivo, per Ascanio Celestini, a fine 2015, sempre nel programma del Romaeuropa Festival, è stato Laika, il nuovo spettacolo.
Qui Celestini tocca uno dei suo vertici creativi. Si potrebbe dire, banalmente e direttamente, che Laika è bellissimo: è uno spettacolo struggente, strampalato, arruffato, indignato, divertente, commovente.
Il lavoro è nato assieme al film Viva la sposa (anche questo presentato alla Mostra del Cinema di Venezia) e come quello racconta un mondo di emarginati, di sbandati, anime strane – buone ma non candide – di una periferia umana oltre che geografica. Accompagnato in scena dal fisarmonicista Gianluca Casadei, Celestini dà voce a quel mondo. La struttura di Laika è solo apparentemente semplice.
C’è una figura di narratore principale – un finto cieco alcolizzato, forse profeta forse matto – che parla con un “Pietro” che ha la voce bambina dell’attrice Alba Rohwacher (voce registrata dell’interprete che era anche co-protagonista della pellicola).
Celestini evoca poi tutti gli altri personaggi di questa storia, quasi fossero protagonisti di altrettante parabole, semi di un rosario da snocciolare giorno dopo giorno. Parla di Dio e di Stephen Hawking, in un’esilarante digressione sulla permalosità del Divino; poi racconta di una vecchia non proprio credente; e ancora di una “mignotta” che voleva farsi suora, e di un barbone nero; della cagnetta Laika lanciata nello spazio; dei pensieri di un facchino alienato, dei turni di lavoro, della polizia che carica, di dove inizia il mare…
Non c’è una trama, in Laika, me le mille trame di un tessuto, fili che compongono un affresco amaro, desolato, struggente nella povertà e nella semplicità.
Lo spazio scenico è delimitato da oggetti quotidiani: lampadine Ikea, attaccate a prolunghe di casa, un siparietto e dietro un mucchio di cassette di plastica, di quelle per le bottiglie, affastellate una sull’altra.
In questa dimensione spiccia, Celestini ha la grazia infinita di dar voce al mondo degli Altri, quelli rimasti fuori, quelli che raramente vengono ascoltati. Lo fa fregandosene di eventuali luoghi comuni o di immagini abusate: perché tutto, prima o poi, acquista senso. Anche le storie consunte – che proprio perché tali non ascoltiamo più – ritrovano valore e calore.
Ecco, nel lungo, ostinato, coraggioso percorso creativo di Ascanio Celestini, Laika segna uno scarto, un passo verso una ulteriore consapevolezza. Quel che preme mettere in rilievo, innanzi tutto, è una piccola ma significativa svolta in quella che possiamo definire la struttura interpretativa. Celestini, in scena, abbandona i panni del folletto sapiente e travolgente, non è il fabulatore furbetto che incanta tutto e tutti con la sua vorticosa fabulazione, e che abbiamo conosciuto e amato nei precedenti spettacoli. Con Laika, abbiamo davanti un uomo, che è sofferente, acciaccato: un Gesù “santo bevitore”, sempre che sia Gesù, sicuramente è un “povero cristo”,: uno che si diverte pure alle disgrazie degli altri, ma che le sa osservare. È un uomo che ha conosciuto la vita, che ha capito la sofferenza propria e altrui.
Poi ci sono gli spettri, i personaggi evocati: quella ciurmaglia, quella marmaglia che è il presepe in cui si colloca il racconto di Celestini.
Sono forse sfaccettature della stessa fantasia, di un’unica visione del mondo che – per quanto amara – non si rassegna alla disillusione. E, in questa storia paradossalmente edificante, il miracolo avviene, alla fine: un miracolo laico, laicissimo, di una semplicità sconfortante, imbarazzante per la sua evidente possibilità. Accade che, di notte, mentre la polizia sgombera il picchetto degli operai e rastrella la strada, il cieco, la vecchia e la matta scendono in strada per difendere il barbone nero.
Eccolo l’evento straordinario, secondo il “credo” di Ascanio: è la partecipazione, è l’indignazione, è l’opporsi alla violenza perpetrata da tutte le parti. In nome di una dignità, di fratellanze antiche, più forti del diritto, della legge, della fantomatica “sicurezza” da tutti invocata: un gesto d’amore, di cui forse saremmo ancora capaci.
Dunque Laika si apre quasi ai Morality plays, alle rappresentazione simboliche medioevali. Nel narrare la sua particolarissima visione di Gesù, Celestini si colloca nel novero di una tradizione popolare che vede nelle “vite dei santi” infiniti spunti per storie anche divertenti, spesso didattiche o simboliche: da San Francesco-giullare fino al Bonifacio VIII di Dario Fo, in tanti hanno fatto tesoro di quelle leggende.
Il tema, peraltro, è caro a Celestini, era presente già in spettacoli ormai storici, come Vita, morte e Miracoli o La fine del mondo, in cui la santità si intrecciava e si dipanava nella figura del matto o dello scemo. Con Laika, però, la prospettiva sembra interiorizzarsi e dunque radicalizzarsi, incarnandosi nell’ibrido “attore-ubriacone-santo” che – senza alcuna prosopopea – si fa cantore degli ultimi. Ben sapendo che nessuno, lui per primo, si salverà.
Vi è blasfemia in questo racconto?
Il pensiero, anche con accenti sferzanti, è costantemente al Dio che, troppo assente, tollera l’intollerabile della vita. In questo carnaio, in questa macelleria (sociale o meno), non bastano il mare o una bottiglia di sambuca per evadere: si tratta di capire, allora, se scendere in strada o meno; se farli i nostri piccoli miracoli quotidiani, i salti mortali della vita. Oppure, come fa Dio, lassù, sperso nello spazio come la celebre cagnetta, restare a guardare. Questa è la domanda aspra che pone Laika di Celestini. Un dubbio aperto, una questione irrisolta, un invito incalzante. È qui la sferzata politica del teatro di Ascanio, è qui l’impegno rinnovato di un artista che non ha mai – a partire da quel Cicoria, tanti anni fa – mollato la presa, non ha mai smesso di dire la sua sul mondo, sulla gente, sui governanti, su Dio.
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