Teatro

Potenza: il festival, la città, il teatro (e le scale)

29 Settembre 2016

È arrivato all’ottava edizione il FestivalCittà delle 100 scale” di Potenza. Manifestazione ariosa, complessa, di altissima qualità che anima il capoluogo della Basilicata grazie all’entusiasmo di due promotori-organizzatori-appassionati che sono Giuseppe Biscaglia e Francesco Scaringi, con l’assistenza tecnico-organizzativa di Mimmo Nardozza.

Professori di liceo, di provenienza e formazione filosofica, Biscaglia e Scaringi si sono dedicati al Festival animati da un amore – nemmeno troppo celato – per la propria città. Arrivare a Potenza, come in tutta la Basilicata, non è facile. Non ci sono treni: bisogna scendere a Salerno e prendere un pulmino. Oppure raggiungere Bari – due ore per cento chilometri – percorrendo una strada spesso dissestata. Ma a Potenza sono arrivati comunque, in questi anni, tutti o quasi i maggiori protagonisti della scena nazionale e internazionale. L’edizione 2016 vede in cartellone Emma Dante, Elias Aguirre, Sharon Fridman, La Veronal, Teatro del Carretto, Compagnia della Fortezza, Anagoor, Deflorian/Tagliarini, MK, Giulio D’Anna, Francesca Foscarini, Alessandro Sciarroni, Frosini/Timpano, Rezza/Mastrella, Virgilio Sieni, Roberto Latini, Ricci/Forte, Canio Loguercio, Tanino De Rosa e ancora Massimo Cacciari, Uberto Curi, Umberto Galimberti, e poi mostre, concerti, laboratori. Insomma, un bel festival, ricco, intenso, davvero multidisciplinare, che si dipana in numerosi spazi, spesso anomali della città: come le tante scale (mobili o meno) che portano dalla periferia al centro.

Per saperne di più, ho incontrato proprio uno dei due fondatori, Francesco Scaringi, cui ho chiesto – ovviamente – come è nato il Festival e perché?

«Siamo nati come associazione culturale dedicata alla filosofia. Peppe e io veniamo da studi e da esperienze diverse, legate proprio al pensiero filosofico. Poi, però, pensando a Potenza, abbiamo subito incontrato l’architettura, cui abbiamo dedicato convegni biennali sui temi della città contemporanea. E partendo da quella prospettiva, in seguito, abbiamo incontrato l’arte, elaborando un progetto chiamato “arte in transito”: ovvero come vedere con un occhio diverso la città. L’idea del paesaggio urbano ci ha fatto arrivare alla danza come forma d’arte che più che altre si rivela un ottimo indicatore per risvegliare modalità diverse di osservazione della città stessa, anche nei suoi ambiti più reconditi. Tutto questo percorso, allora, si è raccolto nell’idea di fare un festival, che contenesse però le anime e le idee che ci hanno sempre spinto. Peppe Biscaglia aveva già lavorato nel settore, con il circuito teatrale territoriale che si chiamava Abs, in quegli anni diretto da Rocco Laboragine. Forti di questa sua esperienza, allora, abbiamo pensato di creare un contenitore immediatamente multidisciplinare. Non poteva essere altrimenti. Una formula che ha avuto la bella conferma del Mibact, che ha riconosciuto il nostro festival, consacrando uno stato di fatto e quell’idea di fondo che ci aveva spinto. Abbiamo poi trovato corrispettivi interessanti in Italia e in Europa: ma per questa regione è qualcosa che si è rivelato interessante e innovativo».

Che valore ha lavorare in Basilicata? È un surplus di problemi?

«Non so se ci sia un surplus di problemi di carattere amministrativo, burocratico, legale. Mi spiego: alcuni di questi aspetti sono più semplici, da affrontare e risolvere, perché c’è un rapporto più immediato con gli enti, con gli uffici dell’amministrazione locale. Certo dal punto di vista economico è tutto più difficoltoso rispetto a altre regioni d’Italia: qui hai problemi di trasporto e di accoglienza che gravano notevolmente sul budget. Però, dal punto di vista dell’impegno di carattere culturale e di risposta di una città come Potenza è bellissimo lavorare qui».

Come risponde il pubblico?

«La cosa bella è che, con gli anni, abbiamo capito una cosa fondamentale: non possiamo più parlare di pubblico ma di pubblici. E un festival, che non sia una rassegna monotematica, deve per questo rispondere alle diverse modalità espressive della danza contemporanea o del teatro. Ed è così che si crea un rapporto, con quei pubblici diversi, in termini di credibilità e fiducia. Quel che ci preme, però, non è andare incontro ai gusti del pubblico, in una prospettiva che sia di “abbassamento” o “livellamento”, quanto di cercare un investimento per il futuro, ossia di crescita assieme. Dunque si lavora “con” il pubblico: le proposte vanno miscelate per crescere continuamente insieme. E tutto questo grazie ai workshop, alla formazione, agli incontri, contaminando i linguaggi, scoprendo parti della città che si restituiscono ai cittadini con una prospettiva nuova. Peraltro, Potenza è una città che ha una buona tradizione teatrale, ha una sua storia e dunque un pubblico esigente. E questa per noi è una garanzia su cui possiamo contare».

Quali punti di forza per l’edizione 2016?

«Abbiamo coniato uno slogan: “riprendiamoci la città”. Cerchiamo, da sempre, una osmosi forte con il nostro territorio. E per questo, cerchiamo di creare quel giusto mix di offerte cui facevo cenno, con innovazione e continuità nella scelta.  Ci sono compagnie che ci hanno accompagnato in questi ultimi anni: Emma Dante (nella foto di copertina, un momento di Le sorelle Macaluso), Ricci/Forte, Roberto Latini… Artisti che qui, poco tempo fa, erano “novità assolute”, e che adesso hanno invece un loro pubblico consolidato che li aspetta. E cerchiamo di dare spazio a lavori che sappiano parlare alle fasce giovanili di pubblico, in particolare con i codici della danza contemporanea. Ci sono fasce di pubblico cui dare maggior attenzione, come quello degli studenti, che sono al centro di iniziative dedicate. Abbiamo sempre pensato che l’incontro del pubblico con gli artisti dovesse essere sempre più “friendly”, ovvero comunicativo, rilassato, sincero rispetto agli spettatori. In questa prospettiva, l’incontro con gli artisti è fondamentale: forse è una formula vecchia, ma in provincia funziona».

Ci sono anche residenze importanti…

«Quest’anno puntiamo anche su qualcosa di molto sostanzioso: residenze e workshop importanti. Armando Punzo, con la sua Compagnia della Fortezza, lavorerà su Shakespeare in un laboratorio aperto a tutti i cittadini. E il maestro lituano Eimuntas Nekrosius, invece, farà una residenza a Matera: l’esperienza di un grande maestro può diventare estremamente interessante nell’incontro o nello scontro con i nostri attori».

Ha evocato Matera. Notoriamente tra le due città non corre buon sangue. Ma quale ruolo può avere il Festival nella prospettiva di Matera Capitale Europea della Cultura?

«A dire il vero, nessuno ci ha chiamato. Ma al di là di questo, credo sia importante, in una chiave politica, non chiudersi per localismo becero, non escludere una città come Potenza dalle iniziative legate alla Capitale della Cultura. È stato per noi molto importante appoggiare la candidatura: abbiamo “donato” un pezzo del nostro programma a Matera, inaugurando lì la scorsa edizione del Festival. E oggi abbiamo instaurato rapporti importanti con alcune istituzioni culturali, come Palazzo Lanfranchi, anche grazie allo splendido lavoro che fa la direttrice Marta Ragozzino. Pensiamo, dunque, che questa collaborazione possa continuare e crescere. Anche perché Matera, allo stato attuale, non ha un teatro, e Potenza potrebbe essere il polo di riferimento per tutta una produzione teatrale che potrebbe essere sviluppata insieme, nelle due città, pensando a un territorio più allargato anche in prospettiva internazionale».

Lo slogan che campeggia sui manifesti del Festival 2016 è “In-Debito”. Perché?

«È abitudine del festival partire da suggestioni filosofiche: il nostro è un festival di sentimento ma anche di riflessione. Aggiungo che il termine “festival” comincia a starci stretto, perché penso che abbia perso la sua caratteristica iniziale di rappresentazione di un luogo che si manifesta attraverso una rassegna. Guardandomi intorno, mi sembra ci sia ormai poca voglia di rischiare: avverto più uno scivolare verso atteggiamenti più compiacenti. Un festival, invece, deve tracciare sempre sentieri innovativi e non essere una ennesima, semplice stagione teatrale. Per quel che ci riguarda, cerchiamo di mantenere la nostra identità e la nostra voglia di novità anche attraverso la riflessione filosofica. Dunque “indebito”, non solo come “in debito”, ma anche come ciò che non è voluto, ovvero come “pietra di scandalo”. La cosa bella è che lavorando su questa parola stiamo scoprendo anche l’aspetto teologico del termine, e dedichiamo un piccolo focus alla questione del sacro nella rappresentazione, tema che affrontiamo anche attraverso il cinema, nella sezione chiamata “Debito e Dono”. Due parole che sembrano contrappuntarsi, ma non è così».

Per saperne di più: http://www.cittacentoscale.it

 

 

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