Teatro

Popolizio, Ibsen e la crisi della sinistra

30 Aprile 2019

Sorprende registrare, e già è stato fatto, l’imponente ritorno di Ibsen sulle scene italiane. Non che se ne sia mai andato, ma di fatto una infilata di allestimenti stanno rimettendo l’autore norvegese al centro dell’attenzione. Dopo l’abbuffata di Cechov in tutte le salse e riscritture possibili (ancora continua: si presta volentieri Anton Pavlov, immagino quanto si divertirebbe per certe riscritture…) ecco il pressoché contemporaneo Henrik Ibsen guadagnare terreno e rivelarsi, laddove ce ne fosse bisogno, un “nostro contemporaneo”. Di più: un contemporaneo addirittura lungimirante.

Ci aveva già pensato Thomas Ostermeier a dare il via ai confronti serrati con i drammi ibseniani ma, spulciando grossolanamente solo le stagioni recenti vale la pena segnalare almeno il John Gabriel Borkman di Marco Sciaccaluga con Gabriele Lavia; poi Il costruttore Solness con Umberto Orsini diretto da Alessando Serra; Casa di Bambola diretto e interpretato da Roberto Valerio; Spettri in due edizioni, una con la regia di Walter Pagliaro e con Micaela Esdra e Massimo Venturiello, l’altra nell’allestimento di Leonardo Lidi con Michele Di Mauro. L’elenco potrebbe continuare, e sarebbe incompleto.

Ma certo a quei nomi occorre aggiungere Massimo Popolizio, recentemente Borkman diretto di Piero Maccarinelli e oggi interprete e regista de Un Nemico del popolo, produzione di punta del Teatro di Roma.

Dunque, perché torna Ibsen?

Cosa ci dice ancora, quell’occhiuto signore, che non sapessimo già? Non è solo questione di “titoli” che richiamano, di scelte produttive sicure, di “usato garantito”. No. C’è altro.

La Norvegia di fine Ottocento, insomma, si mostra speculare all’Italia di oggi. Ogni allestimento ne svela un tassello, un motivo, una profonda ragione. E lui, Henrik Ibsen, con la sua prospettiva già molto europea da viaggiatore qual era, a oltre cento anni dalla scomparsa (il 23 maggio 1906) appare sempre più un giovanotto sagace, attento alle dinamiche sociali e individuali. Registrava, a suo tempo, il crollo del superomismo e preavvertiva già il sangue della Prima guerra mondiale, quel clima da lotta al coltello borghese, sulla pelle altrui, per la sopravvivenza nel declino generale dei valori, delle narrazioni, delle istituzioni. Al pari di Cechov e di Jarry, di Piscator e Mejerchol’d, di Strindberg e Brecht, Ibsen spalanca le braccia alla fine. Il crollo è senza dubbio economico e strutturale: crollano case, villaggi interi e soprattutto crollano i suoi eroi sconfitti, tra titanica lotta al conformismo e fughe nei meandri del più cupo psicologismo.

Ecco, dunque, che in questo contesto, possiamo arrivare all’allestimento firmato da Popolizio all’Argentina.

Maria Paiato e Massimo Popolizio, foto Giuseppe Distefano

Per quel che mi riguarda, ho visto lo spettacolo due volte. Ero andato, al debutto, nel rutilante clima della “prima” romana. Avevo trovato gli attori ancora un po’ “congelati”, ovviamente tesi nel trovarsi di fronte al pubblico: e io ero forse troppo stanco per leggere in prospettiva, per percepire quel che sarebbe stato lo spettacolo di lì a pochi giorni, nel suo sviluppo naturale.

Dunque, sono tornato, in una replica “normale”, nella sempre affollatissima sala.

Le molte belle recensioni già uscite, e a loro rimando volentieri, esaltano alcune qualità del lavoro. Vale la pena soffermarsi sulla bontà dell’interpretazione degli attori, un cast assolutamente di livello, a partire dalla meravigliosa Maria Paiato en travesti, nel ruolo del sindaco; e da Paolo Musio nella sua nevrotica e subdola caratterizzazione di Hovstad; ma anche Francesca Ciocchetti e Maira Laila Fernandez. Da ricordare certo anche la scena di Marco Rossi, elegante e funzionale, dalle suggestioni molto “ronconiane”, con quella parete che cade rumorosamente come fu nel Pasticciaccio.

Ma cerco qui di focalizzare due questioni.

Scipio Slataper, nella sua celebre tesi su Ibsen del 1912 (ho un’edizione Valsecchi del 77) fa un esattissimo elenco dei nodi del testo, che definisce “La storia delle scoperte del dott. Stockmann”. Scrive Slataper: «il primo atto è la prima scoperta: che l’acqua dei famosi e redditizi bagni è inquinata. La seconda scoperta tiratagli fuori dal giornalista è che “tutta la vita in fiore della nostra comunità succhia alimento da una bugia”: atto secondo. Nel terzo atto vien dimostrato come tutti, anche le forze rivoluzionarie, siano alleati a impedire che il pubblico sappia la verità; l’atto quarto è il discorso che riassume queste scoperte e fa scoppiare la nuova, che è: il vero nemico della verità e moralità è “la compatta maggioranza”. E finalmente, atto quinto, quando i concittadini gli dimostrano con molti mezzi più che convincenti ch’egli non può vivere tra loro, l’ultima “sua” grande scoperta è che “l’uomo più forte del mondo è chi sta solo”. Anche qui – conclude Slataper – assistiamo alla caduta degli ideali, all’emergere della fiera realtà, e anche qui, la fine è una disfatta benché il principio d’una vita nuova, forse».

Ecco, basta ripercorrere questo schema per aver più chiari alcuni passaggi registici di Popolizio e per cogliere appieno l’attualità di questo testo. La questione dell’eroe sconfitto, che rimane solo, splende nel finale e spiega l’ambientazione da blues statunitense primi-novecento: la camminata finale, quasi da cow boy, di Popolizio-Stockmann che raggiunge il cantastorie ubriacone sul fondo della scena è proprio l’addio del pistolero a cavallo, o di qualche detective alla Philip Marlowe, che si allontana quando i giochi sono fatti. Lui, integerrimo, subisce e svela la violenza del sistema, il disegno criminale di quei “Loro” che tengono le redini del potere. Resterà marginale tra gli emarginati, sconfitto ma non abbattuto nella sua dignità come nella migliore tradizione di tanto on the road americano.

In più, la scelta interpretativa e registica imposta da Massimo Popolizio è decisamente “ironica”, distante, dunque anti-tragica, demistificatrice. Senza star troppo a sottolineare i rimandi allo stile di Luca Ronconi, quel che preme qui è la lezione che ne viene: solo con un disincanto ironico, intelligente, possiamo combattere le nostre battaglie? Forse, verrebbe da dire. Poiché l’ironia non è solo caustico cinismo, fredda distanza, ma anche – e magari soprattutto – comprensione e empatia delle cose umane, degli affanni e delle illusioni di tutti e ciascuno. Non è un caso, allora, che la famiglia di Stockmann viva delle stesse suggestioni: moglie e figlia sono osservatrici partecipi delle dinamiche ribollenti del paese e dei suoi abitanti.

 

foto Giuseppe Distefano

L’altra questione, che con il Nemico del Popolo emerge sempre con forza, è quella democratica. Non è un caso che la traduzione adottata sia quella di Luigi Squarzina. Dovremmo ricordare più e meglio la lezione di quel regista, il suo costante impegno politico, la sua lotta a sinistra attraverso il teatro. Basterebbe evocare un suo lavoro giovanile, quel La romagnola che debuttò al Valle nel 1959, contestato dai fascisti (e con in scena un giovane Ronconi).

Ebbene, perché quella traduzione e non altre? Il rimando a  Squarzina pone con maggior forza la questione del teatro politico che, nella lettura di Popolizio, arriva netta sulla dialettica maggioranza-minoranza. Il suo Stockmann, infatti, arriva a dire: «la maggioranza non ha mai ragione». Vista la maggioranza al governo, democraticamente eletta, non si può che essere d’accordo!

Ma il tema è delicato. Anni fa Goffredo Fofi aveva dedicato il suo “La vocazione minoritaria” (Laterza)  proprio alla “minoranza”. Scriveva: «Siamo un paese in cui i poveri invidiano i ricchi, e i ricchi assomigliano ai poveri: una delle astuzie della società attuale è aver convinto i poveri a amare, a idolatrare la ricchezza e la volgarità (…) Il compito delle minoranze dovrebbe essere l’esercizio della critica, la proposta di una visione morale dell’agire sociale e politico: che stia dalla parte dei deboli e delle persone comuni. I loro primi nemici dovrebbero essere l’autoreferenzialità e la compiacenza nei confronti del potere (politico, economico, ecclesiastico) la mancanza di ideali collettivi e di orizzonti comuni, la rivalità e la gelosia nei confronti di altri gruppi…».

Lo spettacolo del Teatro di Roma ha registrato un costante “tutto esaurito”, ovvero un grande successo, ma – come è naturale – ha ancora a che fare con “numeri” ridotti rispetto ai grandi numeri delle maggioranze possibili. Qui, come altrove, il teatro parla dunque a se stesso in quanto minoranza, si pone come minoranza che si confronta con una minoranza. Sarebbe da scomodare il Manifesto del Nuovo Teatro di Pier Paolo Pasolini: poche decine di migliaia di intellettuali? Questi siamo?

Allora il rischio del cortocircuito è dietro l’angolo. Rischio politico-culturale, ovviamente, non artistico. La scelta di lettura di Popolizio è abbastanza tendenziosa (che so: quella di Ostermeier era più aperta e dialettica), prende una posizione precisa e, in questo, lo spettacolo è bello, efficace, funziona bene.

Ma il pericolo è, provo a dire, che “confermi” la minoranza in quanto tale. Ossia rischia di gratificare il pubblico come appartenente alla comunità minoritaria dei “giusti”, dei colti, di quelli che “hanno ragione”. Di coloro che hanno combattuto, hanno perso, ma come eroici cowboy accettano dignitosamente la sconfitta e non si compromettono. Nel programma di sala c’è il saggio di Squarzina nel 49: Stockmann è un educatore, dice Squarzina, appartiene a quella «minoranza che lotta per al verità e che, sì, ha sempre ragione, ecco chi sono “i pochi, gli isolati”, i membri dell’aristocrazia dello spirito che coincide con l’autentica democrazia e con la moralità».

Riecheggia la contraddizione attuale della sinistra, quella contraddizione che ha fatto sì che le “menti migliori della mia generazione” si arroccassero nell’orgoglio minoritario, che dessero per scontata e nobile la distanza dalla maggioranza. Insomma: l’elitismo, per cui è spesso stata criticata la nostra sinistra. C’è compiacimento in questa prospettiva? Il fatto, insomma, che usciamo dal teatro convinti e orgogliosi che essere minoritari, fa bene? Il dilemma lo pone già Ibsen, ben prima del PD di Walter Veltroni e della sua vocazione maggioritaria. È meglio restare soli?

L’avesse saputo, il norvegese, che avrebbe dovuto fare i conti con le dinamiche della sinistra italiana, magari ci avrebbe anche spiegato meglio come andare avanti…

 

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