Teatro
Poco più di un fatto personale: cronaca di una riflessione sul presente
Un fatto di cronaca, l’efferato omicidio di una giovane donna e il tentativo di insabbiare le prove. Alle spalle altri omicidi e un gruppo di giovani, nella provincia di Varese: sono le bestie di satana, ragazzi “ordinari” di straordinaria ferocia. I giornali raccontano gli avvenimenti, Marco Di Stefano, oggi attore e autore, allora ragazzo, trova fra le pagine le foto di volti noti, compagni di strada che hanno imboccato un bivio diverso, deviante. A quasi vent’anni di distanza Di Stefano ripercorre quei momenti, il fragile mondo adolescenziale, dove ogni passo può portarti fuori strada, dove basta poco – una scelta sbagliata, presa senza la dovuta consapevolezza – per veder cambiare completamente la vita.
Poco più di un fatto personale, in scena dal 2 al 6 maggio al Teatro della Cooperativa di Milano, racconta questa storia. Un affresco duro, ma non privo di momenti inaspettatamente ironici – perché l’ironia è disvelamento – di eventi di cronaca nera che hanno segnato un’epoca e che tutt’ora interrogano rispetto alle dinamiche sociali di gruppo che si creano nella delicata fase dell’adolescenza. Ne abbiamo parlato con Marco Di Stefano per capire meglio i percorsi che hanno portato alla realizzazione di questa pièce.
Dal personale alla scena: questo spettacolo trae spunto da un fatto di cronaca nera che ci interroga profondamente sui bivi a cui siamo sottoposti durante la nostra vita. Da una parte un’esistenza “normale”, dall’altra la violenza, il vuoto. Spesso scegliere una strada piuttosto che un’altra è un mix di caso e consapevolezza, soprattutto in adolescenza. A partire da quale esigenza attuale hai deciso di affrontare questo tema che è, appunto, personale e al contempo universale?
L’esigenza nasce nel 2004, nel momento in cui i delitti delle Bestie di Satana vennero a galla. Era un’esigenza che però non riusciva a prendere forma perché sentivo che non era mai il momento giusto per affrontare questo lavoro. Ero poco lucido, forse perché non abbastanza distante dalla mia adolescenza. Ne parlavo spesso con Chiara Boscaro, che oltre a essere la mia compagna di lavoro è anche la mia compagna di vita. Poi siamo diventati genitori e il mio punto di vista si è spostato radicalmente. Anche le domande sono cambiate, o meglio, sono aumentate. Alla domanda “potevo essere io?” se ne è aggiunta un’altra: “potrebbe capitare ai miei figli, di essere vittima o carnefice?”. La mia esigenza del passato aveva incontrato la mia esigenza del presente. E soprattutto si apriva a una riflessione più ampia: universale, appunto. Così Chiara e io abbiamo sentito che era il momento giusto per iniziare a lavorare. A quel punto si è verificata una cosa strana: parlando con Stefano Beghi ho scoperto che anche lui era interessato all’argomento. Per la provincia di Varese, la storia delle Bestie di Satana è ancora una ferita aperta che lui, artista proveniente da quel territorio, sentiva in qualche modo di dover affrontare: avevamo trovato il regista giusto per lo spettacolo.
Il contemporaneo ci risponde quotidianamente a fatti di violenza attuati da giovanissimi. Questo ci impone di interrogarci su cosa sta avvenendo nel mondo dei ragazzi. Cosa è cambiato rispetto ai fatti di allora? Che supporto può dare la scena all’elaborazione di una risposta sul significato di questo cambiamento?
Io credo che sia cambiato il contesto – banalmente a causa della tecnologia – e che la pandemia abbia accentuato il vuoto con il quale ogni adolescente (e non solo) deve confrontarsi giornalmente. Credo però che le condizioni di esistenza di questa violenza restino sempre le stesse perché sono connaturate a una fase della vita difficile, dove ogni essere umano cerca disperatamente di trovare una propria identità, un suo posto nel mondo. Di appartenere a un gruppo -o meglio, un branco – che lo accetti e che lo valorizzi. E spesso questo percorso tortuoso è costellato di prevaricazioni reciproche, violenza, fuga nell’alcol e nella droga. Forse, a seconda dei tempi, cambiano gli spazi dove i giovani vanno a cercare il proprio branco. Negli Anni di Piombo si cercava identità nella politica: i condannati per la strage di Bologna, ad esempio, avevano tutti tra i 17 e i 22 anni al momento dei fatti e gli scontri politici nei licei erano all’ordine del giorno. Negli anni ’90 noi cercavamo riparo nelle subculture e in una subcultura è maturata la storia delle Bestie di Satana e non solo, visto che ci sono fatti analoghi anche in altri paesi occidentali. Oggi faccio fatica a riconoscere quali siano i branchi di riferimento degli adolescenti, ma questo è sicuramente un limite mio. Ma al di là dei miei limiti, resta il fatto che la giovinezza sia per definizione un periodo di crisi e caos. Ciò che il teatro può fare è generare una sintesi che provi a mettere ordine in questo caos e sperare che questa sintesi sia accessibile al più vasto numero di persone possibili: giovani, adulti, anziani. Perché la questione riguarda tutti.
Il teatro come momento catartico può aiutarci ad acquisire consapevolezza rispetto alle ripercussioni che le scelte, anche quelle non del tutto consapevoli forse, vissute da giovanissimi, possono avere sulle nostre vite e sulla società?
Credo che il teatro serva a porre le domande. E credo che le domande giuste possano generare un cambiamento nello spettatore, al quale spettano le proprie personali risposte. L’importante è che lo spettatore, soprattutto se molto giovane, si trovi di fronte a un’opera d’arte onesta, dove la condivisione tra artisti e pubblico sia reale. Il teatro è prima di tutto un incontro tra persone. E se queste persone sono disposte ad ascoltarsi, il teatro può essere davvero un mezzo potente, anche nel creare consapevolezza.
Molti giovani oggi si trovano senza riferimenti di fronte alla complessità del presente. Le scelte nel disorientamento possono essere difficili, soprattutto quando riguardano la zona grigia fra bene e male. Può la cultura essere veicolo di nuovi spazi di riflessione e individuazione di punti di riferimento?
Più che “può”, direi che la cultura “deve” essere veicolo di nuovi spazi e punti di riferimento. L’Arte e la Cultura sono la nostra educazione sentimentale, nel senso che ci educano a gestire i sentimenti, dai peggiori ai più edificanti. Ci insegnano a gestire i conflitti, a riconoscere l’amore e a gestire l’odio e la rabbia. L’Arte e la Cultura sono le cose che ci rendono umani e che possono salvarci dalla barbarie. Credo che spesso il disorientamento di cui parli nasca proprio dalla mancanza di Arte e Cultura nella vita dei giovani. Una frase di una delle Bestie di Satana, Mario Maccione, mi ha molto colpito e credo che possa essere una ottima conclusione a questa intervista: “Avessimo continuato solo a cantare e suonare… invece ci siamo infilati dentro quell’imbuto oscuro che ci ha distrutto”.
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