Teatro
Pirandello uno e due
La notizia è il “tutto esaurito”: nelle due sale del Teatro India, sedie aggiunte e pubblico assiepato pure sui gradini. Anche nella già famigerata Sala A, quella appena ristrutturata, dove – chissà come sia stato possibile – dalla terza fila in poi non si vede niente.
E se il Piccolo di Milano annuncia, orgogliosamente, di aver più abbonati di Milan e Inter, anche il Teatro di Roma, nelle mille difficoltà e contraddizioni di questa città, può rallegrarsi di tanta adesione di pubblico.
Il motivo di simile entusiasmo è il buon vecchio Don Luigi dalla contrada Kaos: Pirandello, insomma, che sembra definitivamente tornato alla luce con interpretazioni vivacissime. Il nome “richiama”, fa correre al botteghino, ma non tanto e non solo per rinverdire vecchi fasti, quanto per svelare – laddove ce ne fosse bisogno – che i suoi testi son davvero un patrimonio nazionale ricchissimo e sempre nuovo.
Ed è bello che i “classici” (ma non tutti i classici lo fanno) continuino a parlare al presente, sappiano svelarsi e svelarci per quel che siamo.
Con Pirandello, poi, c’è il gusto squisitamente linguistico, quella capacità di tessere partiture verbali, sonore, di un “italiano” raffinato eppure diretto, incisivo. Se ben affrontato e allestito, quando viene tirato fuori dalla museificazione, il codice linguistico di Luigi Pirandello è al tempo stesso teatrale (con quel sapore dolcemente antico) e attuale proprio per la sua capacità millimetrica di scavo, per quell’essere netto, acuto, aguzzo.
Così, mentre il critico Paolo Petroni cerca di rilanciare, ma senza fondi, la romana Casa-Studio di Pirandello (un luogo assolutamente da visitare, in via Bosio), i testi del premio Nobel arrivano a India in due versioni diversissime. E sbancano.
Tutta questa introduzione serve per mettere assieme – nelle diversità di approccio e stile – due spettacoli come O di uno o di nessuno, diretto da Gianluigi Fogacci, e Il berretto a sonagli, con la regia di Valter Malosti. Spettacoli riuscitissimi, entrambi. Provo a spiegare perché.
O di uno o di nessuno è quasi una parabola. Un affresco morale, che in tempi di stepchild adoption, di famiglie diversamente composite, acquista un sapore di sussurrata e critica ironia.
Brevemente la trama: in pieno fascismo, due giovanotti – forse una coppia? – condividono anche una donna. Le pagano una casa, lei fa dei lavoretti per loro e accondiscende anche in altro. Un ménage à trois dislocato in appartamenti diversi, insomma. Molto prima di Jules et Jim, Pirandello abbozza questa liaison: ideale fino a che lei non rimane incinta. Di chi è il figlio? Il dilemma, più che morale, è di ruoli. Orgoglio virile, da machismo prefascista, e opportunismo si scontrano con la libera decisione della donna di tenersi il figlio. Il finale, va da sé, è tragico e perbenista: si salvano il maschile e le apparenze sociali.
Fogacci, con la compagnia Diritto e Rovescio, gioca con una regia rigorosa e quasi neo-realista, lasciando spazi allusivi solo alla scenografia lineare e evocativa. Affida agli attori il compito di “dare” il testo in tutte le sue sfaccettature, aprendo meandri nel non-detto che avrebbero fatto piacere a Harold Pinter. Al centro c’è lei, la giovane e candida Melina, che qui ha le fattezze aggraziate e intense di Valentina Bartolo – attrice che deve ancora essere adeguatamente apprezzata per le sue capacità – cui fanno da contraltare le egoiste ma apparentemente coerenti posizioni dei due uomini (ben interpretati da Roberto Laureri e Simone Baldassarri). Gianluigi Fogacci tiene per sé il ruolo dell’avvocato amico e confidente: ne fa una figura sorniona e generosa, la quale però capitolerà nell’opportunismo. Con loro in scena anche Alessandra Puliafico e Veronica Loforese.
Bel lavoro, accolto da una vera ovazione: compatto e intenso, essenziale e efficace che, nell’apparente linearità della vicenda, sovrappone livelli interpretativi successivi. È del 1930, questo testo, e prefigura la svolta amorale dell’Italia a venire: quella del “Me ne frego!”, che risuona grottesco nel finale, dopo la morte della fanciulla. Pirandello, che pure con il regime ebbe un rapporto non adamantino, racconta l’Italia piccolo borghese, egoista e arrogante, opportunista e superficiale, in una parola: fascista, che troppo spesso ritorna immutabile in modelli maschili, sociali, culturali.
Se Fogacci lavora sull’understatement attorale, diverso è l’approccio di Valter Malosti, per la prima volta in carriera alle prese con un testo pirandelliano. Sceglie Il berretto a sonagli, la versione ritrovata – ci informano le note – nel 1965 e pubblicata solo nel 1988.
Da par suo, il regista fa emergere gli aspetti più stridenti, grotteschi, antinaturalisti: in uno spazio sghembo (di Carmelo Giammello), dove prevalgono pareti a specchio che rimandano claustrofobicamente e ossessivamente le figure dei protagonisti, si dipana la vicenda di Ciampa e della signora Beatrice Florica. Un’altra figura di donna, tradita e vendicativa, che assurge a protagonista: le dà corpo e voce, in modo straordinario, Roberta Caronia. Il primo quarto d’ora, con lei in scena, fremente e selvaggia, è da manuale di recitazione: alterna un palermitano flautato e sinuoso a stridii nervosi, gesti impazienti e pose da erinni. Travolgente e bravissima. Donna Beatrice gestisce – o pensa di gestire – il gioco succulento della vendetta, ma non ha fatto i conti con lui, il pacioso e sottile Ciampa, cui Malosti dà carature notevolissime. Una parruccona simil-einstein, occhiali, il Ciampa di Malosti è un ragionatore sottile e folle, un uomo tutto consapevolezza e dignità, comprensione e determinazione. Nella partita a scacchi tra i due, destinata a ferire e umiliare la donna, in nome – ancora una volta – delle apparenze e della buona società, si versa il nero di una bile incancrenita, in cui la dinamica di lotta di classe (la padrona ricca e miope, il servo arguto, sapiente) si riverbera in uno scontro tra maschile e femminile di grande intensità. Le altre donne – come la domestica, affidata a una brava e divertente Cristina Arnone; la madre e la Saracena, entrambe ottimamente connotate da Paola Pace; e la moglie di Ciampa, in una folgorante e autoironica apparizione della bella e brava Roberta Crivelli – sono un mondo in scontro e in combutta, alleate e nemiche, sodali ma pronte a scaricare la “povera” signora dichiarata matta per quieto vivere. E gli uomini, come il fratello Fifi (ben calibrato Vito di Bella) o il confuso e innamorato Spanò (bene Paolo Giangrasso) sono solo macchiette, maschere di questo gioco al massacro tra i sessi. Il ritmo della narrazione è forsennato, Malosti tiene le redini di una cavalcata feroce, parodia violenta di un mondo esasperato e disperato, dove il grande assente – l’uomo, il marito traditore – è un convitato di pietra che, ovviamente, si salverà. Prodotto dal Teatro di Dioniso dello stesso Malosti, questo Berretto a Sonagli merita i lunghi applausi finali.
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