Teatro
Pirandello, Balestrini e quel che resta del collettivo
Il problema, per uno ormai vecchietto come me, è il “collettivo”. Ossia quella tendenza – retaggio di ideologie definitivamente seppellite – a privilegiare sempre il gruppo sull’individuo, a cercare il benessere collettivo su quello personale.
Erano parole d’ordine: inclusione, dialogo, assemblea, comunità anziché esclusione, monologo, comizio… Parole che quasi fanno sorridere alla luce dei fatti: la storia, si sa, è andata altrove.
Oggi, poi, che pure si vota per le primarie, abbiamo maturato un tale disincanto che è paragonabile a quello di un bambino quando scopre che babbo natale non esiste: l’abbiamo scoperto da tempo, che i partiti non rappresentano più nulla. E quanto sia pratica spossante il bene comune. Ci consoliamo, slittando dagli evidenti inghippi di una rappresentanza che non ci rappresenta più, alle possibilità della rappresentazione che, invece, ancora e sempre, fa del teatro l’ultimo luogo di democrazia discorsiva, di incontro reale, fattuale, tra comunità.
Teatro come luogo del politico: ci ho sempre creduto, anche di fronte a decenni di spettacoli estetizzanti e sterili. E continuo a crederlo oggi, alle soglie dei cinquanta, andando in platea ogni sera o quasi, girando come un matto su e giù per l’Italia, in sale prestigiose o in cantine gelate, imbattendomi in mostri sacri o talenti in erba. Vedo ancora, nonostante tutto, un teatro vivo, presente, diretto e sfrontato: un teatro politico che ha senso profondo. Un teatro, e tanti teatranti – mi perdonino gli alfieri del botteghino a tutti i costi – che non riunciano ai propri sogni, alle proprie utopie. Invece tutto sembra volgere altrove: il ministero richiede borderò, incassi e fatture, spingendo sempre più la fragile poesia della scena a una serrata deriva commerciale. In parte è legittimo, e giustificato, pretendere professionalità, contributi, incassi. Ma non è qui che sta il teatro, e anche al ministero lo sanno (sono certo che Ninni Cutaia e il suo staff lo sappiano benissimo). Perché quello strano, laicissimo, miracolo che avviene sera dopo sera, quando degli esseri umani guardano e ascoltano altri esseri umani, non è questione di algoritmi. Piuttosto, sempre di nuovo, di benessere collettivo.
Allora, mi piace accostare, del tutto arbitrariamente, due spettacoli diversissimi, visti entrambi al Teatro India, che fanno i conti, ciascuno a suo modo, proprio con il nodoso rapporto individuale-collettivo.
Il primo è il possente I Giganti della Montagna, capolavoro pirandelliano messo in scena, e forse vissuto, da Roberto Latini con Fortebraccio Teatro. Il secondo è I Furiosi, testo di Nanni Balestrini, diretto da Fabrizio Parenti prodotto dal Teatro di Roma.
Con Roberto, Fabrizio e qualche altro abbiamo decenni di storia condivisa: le esperienze romane (tra cui una troppo breve occupazione proprio del teatro India, ormai secoli fa) fatte di tanti progetti e molte delusioni. È bello seguire – anche senza condividere sempre – le scelte e i percorsi di questi artisti, e ritrovarli alla maturità della propria creatività.
Sui Giganti è già stato scritto tutto. Recensito e premiato, questo bello spettacolo mi è sembrato una specie di “concept album”, un attraversamento teorico del classico pirandelliano, virato a estrapolare e illuminare solo alcune zone (non sempre le più note) e personaggi del testo, come è prassi drammaturgica di Latini. Ci dà molto da ragionare, quest’anno, con il suo percorso: se pure non tutto mi è chiaro, e non sempre mi esalto, Roberto Latini conferma un periodo di grande e fertile creatività che, dopo Ubu Re e Metamorfosi (che non ho avuto il piacere di vedere) trova anche ne I Giganti una pagina considerevole.
Lui, l’attore-performer magistrale e rigoroso, si fa carico di tutto: del mondo e del nulla, del sogno e dell’immaginazione, della paura e delle parole. È una reductio ad unum, un introiettare e impossessarsi di ogni parte, un mostrare – spavaldamente e ironicamente – come il collettivo non sia più possibile. Anche in un testo come I Giganti, paradigmatico nel raccontare una eterna e irrisolta dialettica tra gruppi, Latini scarnifica il superfluo e muta tutto in deriva intima, pudica, dolorosa.
Per Giorgio Strehler era chiaro chi fossero i fantomatici Giganti – vi ricordate quella struggente immagine finale, con il sipario di ferro che schiaccia e distrugge il carretto dei comici – così come era chiaro che quel testo raccontasse proprio della solidarietà umana tra le due comunità, quella di Controne e quella di Ilse. In Latini, mi pare di poter dire, la suggestione è più verso l’edizione di Leo De Berardinis, che non a caso vestiva i panni della Contessa, ma con un passo ulteriore. Per Fortebraccio Teatro, i Giganti evocati da Pirandello non hanno quasi più peso: la dinamica della paura è ormai altrove ed è tutta interiore, singola, privata.
Il ragionamento di Roberto è piuttosto attorno all’identità individuale e artistica, dunque alle possibilità della poesia, al ruolo dell’artista che si troverà, come Wendy nel Peter Pan, sospeso su un trampolino nel nulla, pronto a finire in pasto ai pescecani o al coccodrillo.
Stare solo in scena, al di là della evidente scelta artistica, significa anche aver perso – per economie di sistema – la possibilità di fare gruppo. È emblematico: Natale in casa Cupiello fatto tutto da Fausto Russo Alesi, i Giganti di Latini e qualche altro esempio si potrebbe fare, sono là a dimostrare e a denunciare che anche il teatro si sta ripiegando su se stesso, sta chiudendo orizzonti, sta diventando lo spaventapasseri di sé. E l’immaginazione – che è fulcro dell’allestimento di Latini – è il lume fioco da proteggere, è la memoria della Commedia dell’Arte, di un teatro antico e eterno, che si immola sull’ultima apertura di sipario.
L’altro spettacolo di cui dicevo, I Furiosi, è calato dentro la curva del Milan. Parla di calcio, di violenza, di miti, di leggende, di scontri a suon di spranghe e pietre.
Parla di un mucchio di persone che si ritrova solo attorno al tifo. I furiosi è un bel testo di Nanni Balestrini, che indaga non solo le spacconate e le malefatte degli ultras milanisti, ma lega sottili rimandi alla storia recente, al movimento del 77, alla lotta armata. E dunque alla caduta verticale di quel “collettivo” o di quel privato-politico dei decenni passati. Lo scontro si è radicalizzato sotto le curve, lo stadio – oltre ad essere luogo di scommesse, di ricatti, di doping, di malaffare – è il terreno di battaglia tra comunità in lotta. Non voglio fare sociologia spiccia, anche perché I Furiosi ha il dono di universalizzare e mitizzare queste figure di capopopolo, di andare al di là del tempo per mostrare leggende (urbane) dal sapore epico.
Seguendo le storie di alcuni personaggi, evocando una vicenda vera – ossia lo scontro tra Milan e Cagliari – Balestrini e Parenti dipingono un affresco implacabile della realtà italiana. Persone che si aggrappano ai colori sociali, alla bandiera, allo striscione, che invocano unità, rispetto, partecipazione, trovando nel calcio l’ultimo baluardo non solo estetico, ma etico, possibile. Vi è, in questo spettacolo, la denuncia forte di tutto il disperato bisogno di certezze, di maestri, di guru, di credenze che striscia attorno a noi. Quel radicalismo ortodosso dell’ultrà è sapida rappresentazione del vuoto che si è fatto in questi anni, ma non vi è condanna, semmai empatia.
Bravissimi Giampiero Judica, Alessandro Riceci, Josafat Vagni e lo stesso Parenti: i quattro in scena hanno vesti da condottieri antichi – scene e costumi sono di Massimo Bellando Randone – e come tali si comportano, consci del ruolo, del compito, direi addirittura della missione. Raccontano fatti, episodi, persone con verve comica e partecipazione fisica: sono storie da bar, ma hanno la sfrontatezza di diventare leggende omeriche, chansons de geste degne di Orlando e Rinaldo. Tra proiezioni video che rimandano i marmi dell’omonimo stadio fascista, frammenti di cronaca o esplosioni, i Furiosi sono passione, gioia, rabbia: sono quel “collettivo” di cui si diceva, ma canalizzato ormai in ambiti socialmente riprovevoli.
È interessante notare come – al di là appunto del teatro – tutto ciò che è “insieme” ovvero “socialità”, sia diventato “massa” inconsulta, facinorosa, sediziosa, da reprimere a manganellate. Proprio mostrando il risvolto della storia ufficiale, indagando quei singoli personaggi, Balestrini e Parenti mostrano quanto e come le individualità che sono a capo di quel gruppo sociale si siano mutati in leader criminali: spesso lo sono, si sa, ché le tifoserie sono degenerate in associazioni a delinquere, con una sistematica deriva a destra, ma vi è stato un tempo, un modo, un momento in cui il ritrovarsi a fare il tifo era qualcosa di semplice e vero, di popolare e condiviso. Loro, quei quattro sulla scena, sono paradigmi del fallimento collettivo, sono campioni della deriva, sono eroi di battaglie che nessuno più ha voluto combattere.
Una nota a margine. Prima dello spettacolo I Giganti della Montagna, Roberto Latini ha letto, da par suo, un bel testo di Katia Ippaso, dal titolo Non domandarmi di me, Marta mia, basato sul carteggio tra Luigi Pirandello e Marta Abba. Proprio una bella scrittura, una compatta drammaturgia, commovente e dettagliata, che riporta alla luce il febbrile legame tra il poeta e la famosa attrice. Spero davvero di vederne presto una compiuta versione scenica. Merita ogni attenzione.
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