Teatro
“Pilade” di Pier Paolo Pasolini, quando la rivoluzione non c’è più
Pilade o la Caduta degli Dei. Cammina in una terra di nessuno, devastata e senza eroi, l’amico di Oreste: proprio dove ha inizio e fine il dramma che Pier Paolo Pasolini ha scritto alla maniera dei classici greci con prologo e nove episodi, di cui l’ultimo a funzione di epilogo. E’ il racconto della sconfitta di chi non ha più gli ideali dei padri, i valori delle madri. I primi sono stati uccisi e così pure le madri. Lo descrive Eschilo nella “Orestea”, tragedia che il cineasta di Bologna dopo averla tradotta su commissione di Vittorio Gassman, completa idealmente, buttando giù quello che è un dramma del “dopo”. Dove, tutto ciò che doveva accadere è già accaduto. Oreste matricida assolto dal tribunale dell’Aeropago è tornato nel luogo del delitto, ad Argo. La magnifica ossessione è quella di cancellare il ricordo del tempo passato cambiando le regole del potere. Aggiornare la tirannide sostituendola con la democrazia, il governo ispirato dalla Ragione di Atena, dea non partorita da madre ma dalla testa di Zeus. E’ il fermo immagine dove incomincia il sequel di “Orestea”, il quarto tempo che Valter Malosti, direttore di Ert e ideatore con Giovanni Agosti del progetto dedicato a Pasolini “Come devi immaginarmi”, ha chiesto di mettere in scena a Giorgina Pi che si è avvalsa della consulenza dello studioso Massimo Fusillo. Prodotto da Emilia Romagna Teatro Ert e Teatro nazionale di Genova, in collaborazione con “Angelo Mai” e Bluemotion l’opera è stata rappresentata fino a pochi giorni fa nell’Arena del Sole di Bologna: un ampio palcoscenico su cui è stata mostrata per tutta la sua lunghezza una scena evocante immaginari apocalittici e post catastrofe. Una discarica capitalistica e consumistica fatta di carcasse di auto, roulotte, copertoni e fiamme di fuochi sparsi. Landa devastata da fine del mondo abitata da un cast simile a un manipolo che si muove in uno spazio-tempo dove sono cancellate e saltate tutte le coordinate della convivenza.
E’ un composito gruppo d’attori a trasmettere dal vivo una bella forza d’insieme: tra questi spiccano le prove di un intenso e brechtiano Valentino Mannias nei panni di Pilade e il suo amico-rivale Oreste, l’ispirato Gabriele Portoghese, entrambi in camicia bianca e abito scuro. Con loro un concentrato di recente umanità: immigrati sfruttati che hanno preso il posto dei contadini di Pasolini, come l’alto e carismatico ghanese Anter Abdow Mohamud, dalla voce bassa e profonda, giovani incappucciati… e poi le Furie che Atena ha trasformato in Eumenidi. Questo è il palpitante fulcro dell’opera divisa in due atti, aspra e senza happy end ma con un amarissimo senso di “no future” . Niente qui è uguale al prima e il futuro assomiglia a un buco nero che tutto inghiotte, spazio off limits come in una borgata romana al collasso: una striscia di terra che sarebbe perfetta per le scorribande di Mad Max. Un territorio dove si vaga di notte e si combatte come fanno le gangs di Walter Hill. O i Blade Runner di Ridley Scott ispirati da Philip Dick. Un po’ replicanti potrebbero essere i personaggi principali di questo “Pilade” che solo a leggerlo nelle pagine cartacee toglie il respiro. Lirico e poetico soprattutto, ma senza azione, visto che l’intellettuale bolognese non aveva proprio la farina del teatrante. Il dramma è un blocco solido, un fiume verboso inarrestabile che a metterlo in scena provoca un senso di vertigine seguendo le parole che si incuneano tra le pieghe dei sentimenti, scalano le mura delle ideologie per percorsi frastagliati e oscuri. Giusto la capacità di una regista, attivista e intellettuale come Giorgina Pi, tra lettura analitica del testo e abilità nel cogliere fotograficamente l’andazzo dei tempi, può riuscire nell’impresa di tradurre il dramma impossibile di PPP in linguaggio di fresca e rabbiosa contemporaneità.
Giorgina Pi legge e, rispettando il testo – con opportuni montaggi- lo trasforma in opera a sé stante collocando Argo nell’Italia del dopoguerra. Occasione per inedite letture sul filo di una contemporaneità politica e sociale che non ammette compromessi. Davanti al lungo palcoscenico infatti è un po’ come assistere in diretta a un film sulla storia recente del Bel Paese.
Un lungo piano sequenza che inquadra e supera i giorni dello stesso cineasta: dalla rivolta del Sessantotto sino ai terribili fatti di Genova del G8 e oltre. Storie di rivolte e conflitti forti con il potere. E di sconfitte. Generazioni che stanno sulla linea di faglia tra il secolo scorso e gli anni Duemila colpite dal virus epidemico di una politica che non arriva più al cuore, confuse negli animi tra passato “eroico” e un presente senza più apparenti orizzonti ideali.
Ma qual’è per Pasolini, dopo l’”Orestea” il tema profondo del dramma? A spiegarlo è lo stesso intellettuale in pochi e fulminanti passaggi di una lettera al quotidiano romano “Paese Sera” (4 settembre 1969): “la Dea della democrazia liberale, Atena, trasforma le Furie, dee dell’irrazionalità “selvaggia” in Eumenidi, dee dell’irrazionalità sopravvivente come capacità di sogno e di sentimento in un mondo razionale: ma ecco che metà delle Eumenidi “degenerano”, e dalle “misteriose montagne” rientrano in città, nel cuore appunto della democrazia liberale: le altre Eumenidi, rimaste sui monti, “ispirano”, invece, la rivoluzione socialista e partigiana di Pilade”.
Giorgina Pi segue l’itinerario tracciato da Pasolini ma va più in là disegnando un dramma dei giorni nostri. Non esiste più quel mondo vagheggiato e rimpianto dall’autore delle poesie di Casarsa, fatto di sacralità arcaica e antichi saperi, qualcosa da tutelare. Come evidenziano anche le note pubblicate postume e gli “Appunti per un’Orestiade africana” relative a un film mai realizzato. Dal 1961 al 1969 (“Pilade” è del 1966) Pasolini si immerge progressivamente in una mitologia del terzo mondo da opporre alla società consumistica. Il confronto con la contemporaneità risulta alle fine aspro, definitivo. E al fondo emerge un nichilismo che può lasciare attoniti. Massimo Fusillo avverte che “Tutta l’opera pasoliniana si può facilmente schematizzare in una serie di opposizioni binarie, che ruotano intorno a un’opposizione primaria, biografica: quella cioè tra il mondo (amato) della madre, e il mondo (odiato) del padre” (in “La Grecia secondo Pasolini”).
Parola chiave che unisce quella visione che lega il passato al presente è “sopravvivenza”. In “Vie Nuove” il poeta afferma che “nulla muore mai in una vita. Tutto sopravvive. Noi insieme viviamo e sopravviviamo. Così anche ogni cultura è sempre intessuta di sopravvivenza”. Questo spiega perché per il poeta il mito delle Furie Erinni, dee del sommerso, vendicatrici dei delitti di sangue è visto come sopravvivenza del passato di una società arcaica che, nel caso della trasformazione nelle “benevole” Eumenidi, significa il passaggio dalla preistoria alla storia, dalla tirannide a un ordine democratico. Nel mito greco sono le cagne Erinni a perseguitare Oreste per l’uccisione della madre Clitennestra, ma il loro accanimento cesserà, ed esse si tramuteranno in Eumenidi, nel momento in cui il matricida verrà assolto, anche grazie al voto di Atena, per aver vendicato il padre. La sentenza attribuisce cioè più importanza alla vita del padre che a quella della madre. Alla fine del dramma “Pilade” le Eumenidi, per volere di Atena, si trasformeranno ancora, simboleggiando il precipitare in una sorta di “nuova preistoria” e cancellando qualsiasi dialettica.
Questo dualismo è recepito e costantemente presente nell’opera di Giorgina Pi: è una delle colonne su cui costruisce l’intera messa in scena. Erinni/Eumenidi, sono un segno simbolico che trasmette in modo prepotente il cambiamento e la mutazione antropologica e politica del nostro tempo. Presenze fluide e in cambiamento, che sfuggono a qualsiasi definizione di genere in termini borghesi, nella plastica interpretazione di Nicole Di Leo, attrice e attivista transessuale.
Presenze inquiete le Erinni si inseriscono indirettamente nell’incontro tra Oreste e Pilade (terzo episodio) in cui quest’ultimo denuncia il malessere per la società amministrata da Oreste che avrebbe corrotto lo spirito originale per cui annuncia il distacco e il ritiro sulle montagne con contadini e giovani per tenere acceso l’ideale rivoluzionario. Pilade, o della Rivolta. Colui che è stato l’ombra del matricida, per averlo seguito e condiviso in ogni sua traversia e decisione dopo l’instaurazione del regime democratico guidato da Oreste, sotto l’egida costante di Atena, decide di rompere il patto.
Un duello ad alta tensione emotiva che cancella una relazione simbiotica ed erotica. Una sfida al fioretto giocata dal vivo tra Mannias e Portoghese, dove si ribatte colpo su colpo fino all’ultima parola. Diventato padrone del proprio destino Pilade ingaggia con l’antico amico una lotta per il potere che ha il segno grafico di un triangolo per la presenza di Elettra, sorella complice di Oreste nell’assassinio della madre. Piombata dentro una mistica fascista la donna è disegnata come un’anima apparentemente distaccata dalla realtà concentrata com’è a rincorrere i fantasmi di un vagheggiato passato. Anima persa nel suo delirio incontra il futuro sposo Pilade mentre si reca al cimitero. “Tu non conosci Pilade?” . Un incontro ravvicinato tutto tempesta e assalto che prelude all’atto sessuale. Dice Pilade: “Perché sappi, io sono qui davanti a te / come un marito davanti alla moglie – come / un cane davanti alla cagna- meglio, sì, come un cane / davanti alla cagna. Sono pronto ad amarti; / come se tu non esistessi, / ed esistesse solo la mia pretesa, / la mia erezione, il mio seme da gettare”.
Anche con lei, dama nera reazionaria, Oreste, principe per voto democratico, pur di mantenere il potere è pronto a stringere una alleanza. Un potere che lo stesso Pilade ha inseguito con i suoi sogni rivoluzionari chiamando attorno a sé gli ultimi della società che, prima dell’assalto al cielo lo abbandoneranno attratti dalle lusinghe del capitalismo consumistico della città di Argo.
“Pilade” è un dramma che invece con prepotenza, nell’allestimento curato da Giorgina Pi, allude alla palude del nostro contemporaneo. Un presente torbido, dentro una lunga notte oscura, illuminata a tratti dai bagliori della guerra che sta minando il cuore dell’Europa e che, assieme alla crisi climatica, spinge verso un futuro di estinzione. Un mondo in sospensione che, per citare uno degli ultimi saggi di Donna Haraway è “Staying with the Trouble”. Stiamo davvero in “troubles”, come dicono gli inglesi. Ma è la stessa filosofa che avvisa a non lasciarci andare a tentazioni di esasperato nichilismo ma invece pensare a costruire strategie di “sopravvivenza”. Torna il concetto pasoliniano ma stavolta è inserito in una cornice completamente mutata, come suggerisce anche Giorgina Pi con la sua lettura attenta a scrutare i nostri giorni. Battezzando l’attuale periodo storico “Chtulucene” (come superamento dell’”Antropocene”, termine quest’ultimo comparso una ventina di anni fa per segnalare come l’attività dell’uomo ha cambiato in profondità la Terra) Donna Haraway indica che questo deve raccattare ora la spazzatura dell’Antropocene superando la tendenza di “sterminio” del “Capitalocene” (per significare i disastri del capitalismo ndr) e “sfrangiare, tagliuzzare e stratificare a più non posso come un giardiniere matto, creando così un ammasso di compost molto più caldo e accogliente per tutti i passati, i presenti e i futuri ancora possibili”.
E’ il finale aperto di questo dramma a suggerire escursioni nella attuale contemporaneità. D’altra parte non è forse questa una tragedia senza catarsi? Come lo stesso protagonista segnala: “Dovrei chiedermi come mai/se era una tragedia, non si chiude con nuovo sangue”. E continuando così a interrogarsi: “Dovrei chiedermi il senso per cui l’intrigo di un’esistenza che ha tutto cercato qualche verità può ora sciogliersi in una pura e semplice incertezza”.
Si staglia alta la solitudine di Pilade eroe senza gloria che come un Che nelle montagne della Bolivia, sognava di cambiare il mondo con una rivoluzione e finirà in solitudine, non prima di aver scambiato un ultimo dialogo con Atena che, uscita dalla sua roulotte abbigliata in latex nero e tacchi a spillo, così si approccia allo sconfitto: “Usare la Non Ragione contro la Ragione! L’hanno fatto i poeti e gli assassini dell’epoca che è appena trascorsa. Tutto il mondo ancora ne odora di morte. L’avevo profetato ad Oreste e su te lo verifico”.
Sarcastico Pilade ammette la sconfitta e i suoi errori e lancia un anatema all’indirizzo della Dea: “Ah, va! Va nella vecchia città la cui nuova storia io non voglio conoscere. Perché temere la vergogna e l’incertezza? Che tu sia maledetta, Ragione, e maledetto ogni tuo Dio e ogni Dio”. Suggello di rabbia per un’opera che non è finita.
“È vero: tutto ciò che non finisce, finisce secondo verità. Ma io non so capire questa fine sospesa della mia storia; né i nuovi sentimenti in cui, bene o male, senza conclusione, io continuo a vivere”.
“Pilade” di Pier Paolo Pasolini vede in scena in ordine di apparizione: Anter Abdow Mohamud, Sylvia De Fanti, Nicole De Leo, Nico Guerzoni, Valentino Mannias, Cristina Parku, Aurora Peres, Laura Pizzirani, Gabriele Portoghese. Dramaturg: Massimo Fusillo. Ambiente sonoro: Collettivo Angelo Mai. Musica e cura del suono: Cristiano De Fabritiis e Valerio Vigilar. Disegno luci di Alessandro Gallo, Costumi di Sandra Cardini. Assistente alla regia: Giorgio Zacco. Regia, scene e video di Giorgina Pi.
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