Teatro
Peter Brook, “The Prisoner” e la questione morale
Oramai si va a uno spettacolo di Peter Brook come fosse una messa. Non è una battuta e cerco di spiegarmi. Il maestro, perché tale è, ha una caratura non solo artistica, ma etica e morale altissima. Brook, novantatreenne, da metà degli anni Settanta ha trovato casa alle Bouffes du Nord di Parigi e in quel teatro continua il suo percorso di ricerca non tanto sul teatro, quanto sull’Uomo. Ovvero, sulle possibilità del teatro di essere una “porta aperta” all’avventura della vita. Mistico, seguace delle acutissime teorie di Gurdjeff, Brook ha raggiunto un’essenzialità estrema, rappacificata, nella sua visione del mondo e del teatro. Ora, arrivato a Roma, al Teatro Vittoria di Roma, con The Prisoner a dare il suo personale contributo alla mirabile programmazione del Romaeuropa Festival presieduto da Monique Veaute e diretto da Fabrizio Grifasi, il maestro ha davvero “detto messa”.
La sua messa laica e etica, naturalmente. Mi spiego, dunque.
Per noi che ci occupiamo di teatro, per noi spettatori professionisti ma anche per il pubblico degli appassionati o dei semplici curiosi, andare a vedere uno spettacolo di Brook significa prendere parte a un “rito culturale”. Certo, rito borghese – come intuì Pier Paolo Pasolini – il teatro è comunque un rito, forse l’ultimo rito fatto di laicità e lucidità che ci resti (andare allo stadio è un rito laico, ma non altrettanto “lucido”, porta adrenalina, non catarsi). Ci crediamo, lo condividiamo: in questo rito laico, l’intelligenza umana, il pensiero critico, lo sguardo e l’ascolto celebrano se stessi. Insomma, non c’è un agnello da sacrificare, semmai un dubbio da seminare, una domanda da donare, un mistero da compiere: ed è quello dell’aguzza, tagliente, democrazia discorsiva, è quello della polis che indaga se stessa, è quello dell’Uomo che si specchia per comprendersi. Brook richiama costantemente tutto ciò. Si entra a teatro perché sappiamo che ci donerà il soffio di un pensiero. Ci farà riflettere su una questione umana, dunque etica.
Ecco il secondo aspetto. Nell’apparente leggerezza, nella levità, nella impalpabile astrattezza del suo teatro, Peter Brook e Marie Hélène Estienne – sua assistente da sempre e sempre più spesso associata alla regia – pongono dilemmi morali. Ossia insegnamenti etici. Il teatro di Brook ed Estienne non può più essere colto, a mio modestissimo parere, se non come interrogazione morale ed etica. Quel che ci offrono i due registri sono “parabole”, insegnamenti brevi o a volte ammonimenti, vite di uomini (non) illustri. Certo interrogazioni aperte. Senza spocchia, prosopopea, senza spacciare Verità posticce. Non è un caso che lo facciano attingendo a storie Sufi o leggende africane: laddove, insomma, la questione pedagogica non è mai secondaria nell’arte come nella vita.
«In Africa tutto è invisibile», diceva più o meno Brook: si tratta di comprendere la visibilità dell’invisibile. Nella sua storia artistica e personale, dal 1972 in poi, ha fatto innumerevoli viaggi in Africa e la cultura africana rappresenta una costante del suo discorso.
Va detto: prima di Brook l’Africa non era considerata di interesse teatrale, ma oggetto di sospetto e diffidenza (e ora, come è tristemente noto, il razzismo dilagante torna a riproporre visioni distorte e limitate). Invece, se qualcosa è cambiato, è anche grazie alla frequentazione del gruppo di Brook del Sahara, del Niger, della Nigeria, del Benin e di tante altre realtà. O grazie al suo indimenticabile “Conferenza degli uccelli”, tratto dal poema mistico del XII sec scritto da Farid al Din Attar. Oppure ancora ai testi di Athol Fugard, Can Temba, Amadou Hamapte Ba e molti altri. E tutto ciò mantenendo sempre quella essenzialità, togliendo quel che non è fondamentale: Brook non definisce mai l’Africano con segni esteriori perché, diceva, “l’Africa siamo noi, Africa è qui e adesso”
In un simile contesto, allora, si svelano quelle parabole, quegli insegnamenti che pongono al centro questioni morali che trafiggono ogni singolo spettatore, ben oltre l’apparente semplicità scenica. Noi abbiamo il compito di assumerle, quelle domande: chiederci cosa di deve, o si può, fare nei rapporti umani, cercando di cogliere l’universalità possibile della questione. C’è un bel libro, di qualche anno fa, scritto dall’israeliano Abraham Yehoshua: Il potere terribile di una piccola colpa. Yehoshua prende spunto da una costatazione, ossia la mancanza di “giudizi di valore” nelle recensioni: «la critica – scrive più o meno (vado a memoria, sto scrivendo su un treno) – li camuffa con pretesti politici, sociali, psicologici, artistici». Insomma, non entriamo nel merito delle decisioni, eludiamo la domanda: “fa bene o fa male?” per parlare magari di estetica o immagini o trame.
La morale, vecchia parola, pericolosa, a rischio pedanteria o censura: morale come “misura”, come “regola”, dunque come “metro”, dal sanscrito Mâ-Ti ossia “misurare”. Qualcosa che attiene, insomma, al concetto di “limite”: erano le pietre sacre, per i Romani, che non potevano essere rimosse senza delitto. The Prisoner è un continuo interrogarsi sul limite. Un girare attorno alla pietra sacra.
La parabola deve essere semplice e simbolica. Qui, nello spettacolo, una narratrice scopre e svela la storia, la tragedia familiare. Si parla di incesto e di parricidio: le colpe ataviche. Poi di amore, di amicizia. Ed è un inesorabile chiedersi “fino a che punto”.
Quando una colpa può essere espiata? Quando possiamo parlare di “riabilitazione” oppure di “riscatto” o ancora possiamo dire di aver “recuperato” quello sbaglio commesso? Fa bene Ezechiel a infliggere quella condanna al giovane Mavuso? E quest’ultimo? Condannato a un “Panottico al contrario”, fuori dalla cella ma costretto a guardare di lontano la prigione. Come e quando capisce che può abbandonare il suo eremitaggio, che ha espiato la pena?
Allora l’esito scenico è solo la momentanea struttura del rito, è solo il pretesto per evocare episodi già raccontati in alcuni libri di Brook (penso I fili del tempo ma non solo). The Prisoner, interpretato con aderenza da Hiran Abeysekera, Hervé Goffings, Omar Silva, Kalieaswari Srinivasan e Hayley Carmichael è insomma la “messa” in cui – con garbo, intelligenza, poesia – il maestro ci interroga e si interroga sulla vita. Ciascuno di noi troverà una propria risposta, la propria possibile, eventuale, redenzione.
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