Teatro
Pasolini e il porcile borghese
Pier Paolo Pasolini – dice lo storico del teatro Marco De Marinis – è ancora un problema irrisolto. Non smettiamo di farci i conti. E in questo novembre di rimembranze e celebrazioni, nel quarantennale della morte, la figura del poeta è definitivamente entrata nel novero dei santi, beati, profeti illuminati di cui tutti, più o meno, dicono di sentir la mancanza.
E se tornasse Pasolini? Il suo essere sempre contro, sempre scomodo, pedantemente e continuamente a parlare e protestare come sarebbe accolto oggi?
Da sempre – da Sade a Shaw, da Genet a Vian, da Brecht a Gramsci – l’intellettuale moralizza la morale corrente. Il “moralista” intelligente è sempre anti-moralista. Con PPP ci tocca riflettere sulla morale pubblica e la coscienza privata, tra il crimine collettivo e la responsabilità individuale. In più, Pasolini spinge a riflettere, ancora e sempre di nuovo, sui codici marxiani di conflitto di classe. Pone, al centro della sua riflessione teatrale, la questione della borghesia. Come sappiamo – al di là della leggenda che vuol Pasolini dedicarsi alle tragedie a causa di un’ulcera – il rapporto dello scrittore con il teatro è di lunga data: risale addirittura agli anni Quaranta, quando era a Bologna. Ce lo ricorda bene uno studioso come Stefano Casi: il teatro, per Pasolini, è un vero progetto culturale. Un progetto che attiene alla lingua come all’analisi sociale, e che esplode negli anni Sessanta, a Roma. Attraversando Eschilo e Plauto (grazie a Vittorio Gassman), scoprendo Brecht e il teatro di Laura Betti, Pasolini si interroga – e ci interroga – sulla lingua teatrale. Che lingua parliamo in scena?
Oggi, si sa, arrivano a vagonate i vari dialetti italiani, ma la questione è aperta. La “mostruosa lingua media” non è sincronica al tempo, né al teatro: ed è qui che entra in gioco, per PPP, la borghesia. Le sue erano, dichiaratamente, “tragedie borghesi”, il teatro specchio critico per una borghesia che assiste attivamente alle contraddizioni della propria realtà: «il destinatario è il mio nemico» arriva a dire. E non fa eccezione Porcile, concepito nel 1967 e poi tradotto in film.
Ho assistito a una bellissima messainscena di questa tragedia, a firma Valerio Binasco, sicuramente tra i migliori registi che abbiamo in Italia. Binasco ha una cifra sempre più netta, che spinge a chiarire il testo e a porgerlo al pubblico, tramite l’arte attorale che sa assecondare e far emergere. È un artista capace di visioni, letture, allestimenti, di scavo emotivo e di ariosa orchestrazione d’attori.
Questo Porcile, allestito con la compagnia stabile del Tric di Prato, e visto al Metastasio, è interessantissimo. Assume il carattere dell’affresco, pur tendenzioso, mantenendo una inquietudine aguzza e avvolgente. Inutile, qui, riassumere la vicenda e la tesi esplorata da Pasolini che ambienta la storia nella Germania post bellica. Quel che preme è proprio il ritratto della borghesia, da cui si vuole affrancare il giovane protagonista, Julian, quasi un autoritratto dell’autore, con quella “diversità” – in questo caso una devianza, una strana forma d’amore per i maiali – che lo rende scandaloso e bellissimo.
Binasco tratta il testo come un classico, non nega la pesantezza e l’essere datato dell’opera, ma l’asseconda, e riesce a dargli rinnovata vita. Fa passare il tessuto verbale (e verboso) incarnandolo nei suoi attori, capaci di illuminare di sincera verità quella che è una “ideologia”, trovando oltretutto un riscontro proprio nel Manifesto sessantottino, in cui Pasolini teorizza l’attore come motore vero del rinnovamento scenico. Al di là dell’Urlo e della Chiacchiera, la parola per PPP era la chiave di quel “Rito culturale” che sarebbe dovuto essere il teatro.
Il testo, dunque, in questo spettacolo esce con grande forza e rilancia la domanda di partenza: che ne è della borghesia? Qui è il nodo che Valerio Binasco sottilmente suggerisce. Attenzione: non è uno spettacolo filo-borghese, anzi esplicita tutte le irrisolutezza, violente e misere, di classe. Ma come per un effetto specchio, fa riflettere sull’altra borghesia: non quella in scena, ma quella che è – o era – in platea. La destinataria, insomma, degli strali pasoliniani.
Ci siamo tutti strappati le vesti per la “scomparsa delle lucciole”, e intanto non ci accorgevamo che era la borghesia a scomparire. Quei «gruppi avanzati della borghesia, progressisti di sinistra, laici liberali, poche migliaia di intellettuali» cui voleva indirizzarsi Pasolini con il suo teatro, che fine hanno fatto?
In Italia sembra sparita la classe media, colta, che sia piccola o alta borghesia. E non è un caso che tutti, oggi, lamentino i “forni”, ovvero le sale vuote: chi ci va a teatro, se quella borghesia non c’è più? Oltre che ritrovare e rinnovare le tragedie di Pasolini, sarebbe da ritrovare e rinnovare il destinatario – nemico o meno – di tale teatro. Ce ne sono tracce ancora a Milano, regge in molte provincie dell’Italia settentrionale. E poi?
Chi l’ha ammazzata, quella borghesia?
Gli intellettuali sembrano chiusi in una élite che riconosce solo se stessa, la sinistra non è più progressista ma situazionista, i laici liberali si sono spostati in una destra caciarona e retriva. A chi parla, allora, il teatro?
Domandiamoci, davvero, a chi parlerebbe, oggi, Pasolini oltre ai “pasoliniani di ritorno” che ne sentono tanto la mancanza e cercano invano di emularlo. Resta aperta, insomma, la questione: e non possiamo non chiederci se, prima o poi, non sentiremo la mancanza di quella borghesia che, alfieri pasoliniani, abbiamo tanto combattuto.
Ma c’è ancora da dire sullo spettacolo (in questo caso coprodotto da Prato e dallo Stabile del Friuli Venezia Giulia): un guizzo, un colpo di coda della bella gestione di Paolo Magelli che ha fatto lavorare la compagnia pratese con diversi registi (tra cui, indimenticato, Massimo Castri). Sotto l’attenta guida di Valerio Binasco, il giovane Francesco Borchi fa ottimamente il ruolo del protagonista Julian: gli dà non solo una erre moscia stile “avvocato”, ma nevrosi e paure tutte contemporanee. Molto bravo.
Accanto a lui, regge bene Elisa Cecilia Langone, nella difficile parte della giovane Ida, tutta slanci e capricci da pseudo rivoluzionaria.
Giustamente viscido, come deve essere, il padre di Mauro Malinverno, che riesce a suscitare anche empatia per un essere che incarna il peggio della suddetta borghesia, affiancato dalla moglie – alcolizzata e devastata – cui dà elegante disperazione Valentina Banci.
Grande prova quella di Fulvio Cauteruccio che è contenuto e incisivo, sottile e suadente, teso e tagliente nel ruolo di Herdhitze, l’ex nazista perfettamente riciclatosi nel nuovo corso economico-politico. A completare il cast, il sempre bravo Franco Ravera, Fabio Mascagni e Pietro D’Elia. Sulle belle musiche di Arturo Annechino, davvero calzanti e suggestive, e le eleganti scene di Lorenzo Banci, questo Porcile lascia il segno.
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