Teatro

Pasolini, Don Giovanni, il Kitsch e i figli di papà

23 Marzo 2015

È difficile essere kitsch. Lo erano con estremo gusto Liberace o in modo sublime Carmelo Bene. Lo erano sapientemente Elton John o Renato Zero, ci prova furbescamente Matteo Renzi.

Il kitsch è ormai un dispositivo demistificatorio che opera per eccesso. È un artificio sentimentale, emotivo, che supera la complessità volgendola ad immediatezza e popolarità.

Il kitsch si fonda sul pop e sul postmodern, sfocia nel modaiolo trash, è relazionale in quanto necessita di un referente e di un ricevente capaci di meta-interpretarne l’istanza: la vertigine ironica del kitsch deve essere compresa, altrimenti scade nel banale cattivo gusto. Serve, in altre parole, la consapevolezza di quel che si sta demistificando: soprattutto a teatro. Sennò, siamo nel territorio di quella che a Roma chiamano “pecionata”.

Recentemente, mi sono imbattuto in due opere che ambivano smaccatamente all’empireo del kitsch.

La prima è il Don Giovanni di Filippo Timi, che definirei un bel fenomeno di claque. La cosa interessante, di questo “evento”, è infatti il consenso preventivo. Sono andato in un Teatro Argentina e l’ho trovato dunque gremitissimo: gente anche in loggione. Timi ha il suo pubblico.

Tutti entusiasti, a prescindere. Lui corre in platea a baciare alcune donne: panico e slanci tra le astanti. Lui dice: devo fare la cacca, e tutti ridono maliziosi. Lui fa la morale sui figli non cresciuti e tutti pensano per tre secondi, assorti e silenziosi. Lui fa gag di metateatro (se così vogliamo dire, ci perdoni Pirandello) che nemmeno Crozza fa più, ammiccando dietro le quinte, e tutti vanno in brodo di giuggiole perché l’attore esce dal personaggio.

 

Filippo Timi; foto di Achille Le Pera
Filippo Timi; foto di Achille Le Pera

Timi dunque allestisce se stesso in un apparato di stupore: tutto, dai tacchi delle scarpe alle parolacce, dalle battute ai gesti, è destinato a stupire, a soddisfare il palato famelico del suo pubblico. E tutto millimetricamente funziona: il gioco di fuochi d’artificio travolge. È “l’effetto”, la mirabilia dell’effetto calcolato. La drammaturgia – se così vogliamo dire – è un bignamino superficialotto del Don Giovanni (con buona pace di Tirso, di Molière, di da Ponte…), interpolato da sconcezze varie. Non entro nel merito delle questioni di “genere”, della visione della donna così banalizzata (con la bravissima Lucia Mascino a combattere strenuamente); né vale approfondire la pervasiva metafora sessuale, lo slancio vitalistico o l’affannosa ricerca di Bene che slitta invece in tardodannunzianesimo. La questione è frigidamente estetica ed estetizzante: vorremmo dar un parere etico, o almeno critico, ma sarebbe come affrontare semanticamente il Billionaire. È un fenomeno sociale, di cui tenere conto. L’effetto generale, però, ricorda quello che Gramsci diceva dei Futuristi: “un gruppo di scolaretti, che sono scappati da un collegio di gesuiti, hanno fatto un po’ di baccano nel bosco vicino e sono stati ricondotti sotto la ferula dalla guardia campestre”. Essendomi allontanato dal teatro alla fine del primo atto, non ho avuto modo di saperne di più. Sono certo del gran successo finale. Ma la domanda resta e mi ci arrovello: è questo che vuole il pubblico?

 

Tutti i padri vogliono far morire i loro figli; foto di Manuela Giusto
Tutti i padri vogliono far morire i loro figli; foto di Manuela Giusto

L’altro lavoro su cui non smetto di interrogarmi è una sorta di sequel di Affabulazione di Pasolini. La prima questione da valutare è la morbosa presenza di PPP, che sempre più viene preso nostalgicamente, dai tanti, troppi, “pasoliniani-di-ritorno”, come vate, totem, guru, riferimento. Nello scontro generazionale irrisolto e avviluppato che attanaglia questi anni di Lupi&Son, Pasolini è diventato paradossalmente l’autorità, ossia il grande Padre cui guardano i “figli” di oggi: quello cui far appello sempre di nuovo. Si arriva al paradosso, dunque, che per giustificare le lotte di oggi occorre chiamare in causa un intellettuale coevo ai padri stessi, e di scontrarsi ideologicamente con l’altra generazione sempre e solo nei territori in cui quella generazione si è formata. Di fatto, è l’infinito (sex)appeal del Sessantotto. Da Pasolini in poi, l’Italia non ha prodotto nulla? Il guaio, in questa prospettiva è anche un altro, ovvero il “sentito dire”: tanto PPP era pedante e cavilloso, quanto più i pasoliniani di ritorno sono allegramente pop. Ecco dunque, ad esempio, l’icona pasoliniana che invade il Pigneto –quartiere ex-popolare di Roma, dove sono stati girati Accattone o Roma Città Aperta – con “io so i nomi” ridotto a slogan pubblicitario.

Mi chiedo, dunque, perché e da dove sia partito il Colossal Kitsch Teatro, ossia Fabio Morgan e Leonardo Ferrari Carissimi, per allestire Tutti i padri vogliono far morire i loro figli. In un incontro pubblico successivo allo spettacolo, ben moderato dal critico Simone Nebbia, il regista ha dichiarato le intenzioni: il figlio di Affabulazione è padre oggi. Al di là della verosimiglianza temporale (chi se ne frega) il guaio è l’esito.

Da quella “intuizione” – chiamiamola così – si dipana infatti una mortale commediola, ancorché ostinatamente “impegnata”, dal gusto stantio, prevedibile, incastonata in luoghi comuni e frasi fatte. La regia non trova di meglio da fare che impantanarsi in una recitazione sovralerighe, stralunata. Gli interpreti sono bravi, anche generosi, ma i personaggi sono quantomeno manichei, a tratti manichini: è tutto un sogno, si dirà alla fine, come se questo bastasse.

La cosa che inquieta, che preoccupa e che personalmente dispiace, è che questo lavoro nasce da una delle “officine” teatrali più vive di Roma, il Teatro Orologio. Lo spazio dietro piazza Navona ha ritrovato in questi anni smalto e coraggio, si apre a giovani compagnie, ha cercato un serrato confronto con il gruppo di Teatro e Critica (http://www.teatroecritica.net), è motore di provocazioni salutari nei confronti della paludata politica culturale cittadina. Quel che viene da pensare, è che ci siano, alla base, tanta confusione e tanta fragilità: la scontentezza, la frustrazione, l’inquietudine diffusa, anche condivisibile, che non trovando sbocchi originali si allineano però su cascami ideologici passati con effetti velleitari. Si comprende bene – ne abbiamo scritto tante volte – la sincerità del messaggio di fondo dello spettacolo: in questo Paese è quanto mai necessario un radicale ricambio generazionale, e il teatro non fa eccezione. Allora ci si aggrappa, naufraghi disperati, alla boa di Pasolini.

Spalle troppo fragili, gli artisti d’oggi? Non lo credo, anzi. Forse farebbero meglio a mollare quel gravame postsessantottino, guardare fieramente e francamente in faccia l’oggi, e rendersi conto che ormai sono loro, i padri.

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