Teatro
Pascal Rambert e la fine di ogni amore
Ero andato, lo ammetto, piuttosto prevenuto: ascoltare la ferocia dell’ennesima “coppia che scoppia” non mi piaceva. Ci siamo passati tutti, troppe volte.
Per questo un po’ diffidavo di Clôture de l’amour, lo spettacolo del francese Pascal Rambert che, dopo una lunga tournée italiana, è approdato alla Biennale Teatro 2016.
Mi sembrava di riaprire inutilmente vecchie ferite, e mi affaticava la prospettiva di farlo, tanto più ascoltando un testo francese: di solito sono infarciti di quel gusto, di quella naturale vocazione che hanno tanti drammaturghi d’oltralpe, per un compiaciuto uso di belle parole.
Ma mi sbagliavo. Ahi quanto mi sbagliavo!
Ovviamente, sistematicamente, le ferite si sono riaperte tutte, e quella “solita” coppia che scoppia non si è mostrata affatto tale. Ci ritrovavamo in tanti, nella salmodia di quelle parole. L’abbiamo sentite, l’abbiamo dette: ci siamo stati, uno di fronte all’altra, a ferirci con quelle pietre, con quelle parole armate che si esplodono senza pietà quando un amore finisce.
Ma nello spettacolo, ovviamente, c’era molto di più.
Pascal Rambert è un artista, drammaturgo regista attore, dal taglio davvero incisivo. Mentre assistevo allo spettacolo, mi sono venuti in mente prima Woody Allen, poi Roland Barthes e i suoi frammenti, poi Jacques Lacan e in fine Antonin Artaud. Perché il viaggio di quei due esseri, pressoché immobili, sospesi in uno spazio vuoto (una sala prove, una palestra di danza), uno contro l’altra solo con le parole, è un viaggio nell’abisso. Inizia vivace (non brillante, ma con un ritmo andante, baldanzoso e coraggioso), poi esplode nell’analitico filosofico ed esistenziale, nella mente che si fa linguaggio; infine affonda nella crudeltà assoluta, nel dolore, nel marcio, o – come ripetono spesso i personaggi – nell’orrore della vita.
L’aspetto folgorante di questo lavoro è che non trasforma la vicenda in un prevedibile e serrato botta e risposta neorealista, in un ennesimo ring da pugilato fatto di interni più o meno casalinghi: ma agisce su una struttura anomala, quasi koltesiana, basata su due lunghi monologhi, due “assoli” (di circa quaranta minuti ciascuno) che si alternano, interrotti da un surreale coro di bambini che intona Cajkovskij. Inizia lui, dice tutto, implacabile. Poi lei, risponde, contrattacca. E le metafore che usano sono aspre, alte, divagazioni poetiche o liriche che declinano tutto l’arco sentimentale in volute verbali che alternano immagini assolutamente astratte ad altre concrete, concretissime, materiche.
In quei centodieci minuti si affonda nella melma dell’esistenza.
Clôture de l’amour ha avuto dieci versioni in altrettanti paesi e altrettante lingue. L’edizione italiana, prodotta da ERT, già ampiamente recensita (qui un sunto degli articoli del passato), è interpretata magistralmente da due fantastici attori: Luca Lazzareschi e Anna Della Rosa. E a loro dobbiamo dedicare l’attenzione. Soprattutto sottolineare come vivono “l’attesa”, ovvero il silenzio, la controscena. Chi ascolta è in primo piano, quasi in proscenio alla sinistra del pubblico: il corpo in tre quarti, lo sguardo rivolto all’altro/a che si colloca al centro, ma sul fondo, quasi rintanato.
Quei corpi che subiscono l’attacco, reagiscono fieri, si chiudono, si piegano su se stessi, si accartocciano, fremono, scartano, guardano: tutto nell’immobilità, senza fare un passo o quasi. Le mani che si stringono e si tendono, il sudore che comincia a impregnare di sé le magliette, le vene, i tendini, la bocca, i denti che fremono. Clôture de l’amour si svela per quello che è: un teatro estremamente, sorprendentemente, fisico. Dietro e sotto il magmatico flusso di parole, la logorrea feroce, c’è un codice fisico, energico, che fa da contrappunto, controcanto, contraltare alle parole.
“Col corpo capisco” diceva un bel libro di qualche anno fa. Lazzareschi e Della Rosa sono due moloch, due eroi di battaglie perdute, due icone che indosseranno copricapi guerreschi e rituali alla fine dello scontro. Bestie da combattimento, senza scampo: le parole passano veloci, come proiettili sopra la testa; ma sui corpi i segni restano.
(immagine di copertina di Futura Tittaferrante)
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