Teatro
Partorirai con dolore: ma è proprio necessario?
Da quando partorire è diventato un fatto ospedaliero? Da quando è stato oggetto di ricovero, di intervento, di chirurgia?
È normale? È naturale partorire sdraiate sulla schiena in una sala operatoria?
Si interroga su questo, e molto altro, uno spettacolo breve e feroce come una frustata. Si intitola Il mestiere più antico del mondo: giocando ovviamente con fatti e riferimenti altri, il lavoro parla di ostetricia. È il racconto, in prima persona, che la brava Laura Nardi, con la complicità registica di Amandio Pinheiro, ha tratto dall’omonimo libro di Gabriella Pacini, ostetrica con alle spalle un’esperienza ultraventennale negli ospedali romani.
Ho assistito al primo studio di questo intenso percorso, e ne sono uscito davvero colpito. Attrice di esperienza (ha lavorato con Ronconi, Nekrosius, Spregelburd…), la Nardi – con la grazia che la contraddistingue e il sorriso incantevole – snocciola fatti inquietanti, racconta e interpreta una storia che lascia sgomenti.
Il parto, infatti, è oggetto di violenza sistematica, è (stato?) vissuto con abusi, mancanza di rispetto, minacce, tecniche invasive, le donne oggetto di apprezzamenti pesanti e ironia greve da parte dei medici, sottoposte a sistematico uso eccessivo di farmaci o di chirurgia. È una realtà conosciuta, ma poco denunciata, nonostante i ripetuti allarmi della Organizzazione Mondiale della Sanità.
E fa bene, dunque, Laura Nardi a imbracciare questa storia, a farsene portavoce e testimone. Con una struttura semplicissima – una sedia utilizzata e trasformata nella narrazione e pochi altri elementi scenici – che fa leva soprattutto sulle capacità interpretative, Laura Nardi è la disincantata protagonista di vicende talmente vere da sembrare assurde.
Lo sappiamo: di fronte all’autorità del “primario” o della “caposala”; di fronte al “sapere” di chi dovrebbe aiutare e invece si impone con subdola violenza, la partoriente non può far altro che sottomettersi. Partorirai con dolore, disse quello.
E in molti ci si sono accaniti, facendo del parto una questione “maschile”, da controllare, da medicalizzare. Fino all’assurdo di staccare il neonato dalla madre, per spedirlo a un nido: paziente subito ricoverato anziché creatura da accogliere al mondo.
La storia si dipana incalzante, gli episodi si susseguono, non senza cinica ironia. La memoria della protagonista ripercorre gli ultimi decenni della pratica ostetrica: c’era il convitto, c’era la “sala parto” per le infette, c’era da rompere il sacco, c’era da star sdraiate con le gambe legate, o con il portantino chiamato a dare una “spinta”. Poi l’epidurale (vi ricordate Nanni Moretti? “Epidurale per tutti!”), poi la flebo, poi i punti…
Ma la natura? Cosa ne è rimasto? Possibile che fare figli sia tutto questo?
Anna, la protagonista, evoca un parto della madre, cui aveva assistito per caso: la donna sola in casa, carponi sul pavimento, il grido animale e poi la voce soave e il pianto del bambino. Poi si torna alla “realtà”, alla degenza coatta, agli occhi supplicanti delle donne costrette a trattenere le grida di dolore. Alla “fretta” dell’ostetrica che vuole sbrigare l’ennesima noia di una che deve far nascere il figlio, e che magari si scusa, e che si dispiace di fare tanto rumore, e che non si sente all’altezza.
Le donne, nella piccola sala della accogliente libreria L’Isola non trovata, erano colpite, turbate dallo spettacolo.
Come potrebbe essere altrimenti? Il parto riguarda tutti, prima o poi: direttamente o indirettamente, per esperienze personali o traslate, per scelta o negazione, è un fatto della vita. E sentirsi spiattellare una verità tanto cruda, fa male.
Mio figlio – scusate la digressione personale – è nato in casa. Si può fare. Ma ricordo ancora i giri per gli ospedali romani, in cerca di un ambiente “accogliente”, fino a decidere che – beh – forse sarebbe stato meglio rimanere a casa. A quanti è capitato? Come non pensare a quella subdola domanda: e se poi succede qualcosa?
Oggi che abbiamo due donne neosindaco di città importanti, forse ci sarebbe da sollevare nuovamente il problema della condizione femminile anche qui.
A partire, ancora una volta, dall’aborto negato dagli “obiettori” (che assurdità!), e dunque difficoltà di trovare strutture in cui si possa praticare l’aborto senza ulteriori, inutili, violenze. A Roma bisogna andare alle cinque di notte, al San Camillo, a far la fila: all’aperto, freddo o caldo che sia, aspettando che aprano; ma è l’unico ospedale in cui c’è ancora un po’ di umanità. Esperienze traumatiche.
Il mestiere più antico del mondo rimanda alla realtà com’era alla fine degli anni Novanta. Poco tempo fa, dunque. Qualcosa è cambiato da allora, qualcosa è migliorato, ma poi non così tanto.
Lo studio di Nardi-Pinheiro ha ancora alcune fragilità – non potrebbe essere altrimenti alla prima uscita, si avverte il bisogno di un maggior respiro – ma ha la forza di affondare come un lama in una piaga sanitaria, sociale, culturale.
Per chi è a Roma, la prossima data possibile è l’8 luglio, alle antiche case romane del Celio. Da non perdere.
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