Teatro

Parole d’oggi risuonano in scena

26 Aprile 2016

Fiammate entusiasmanti di drammaturgia contemporanea a Roma!

Quasi fosse una città europea, anche la stantia capitale – per fortuite coincidenze, più che per reale volontà o progettazione – a volte si dà le arie di Parigi o Londra e sciorina un florilegio di testi nuovi e nuovissimi.

Imperversa Pier Paolo Pasolini, ovviamente: nume tutelare da cui non riusciamo a prescindere, con ben due allestimenti tra Argentina e Vascello.

A guardare però l’agenda, offerta con la consueta puntualità da Teatro e Critica, si notano anche altre proposte incoraggianti.

Ho mancato la novità del duo Timpano-Frosini, Carne; purtroppo, anche e I vicini del bravo Fausto Paravidino all’Eliseo. Ma c’è altro, per riscattarmi: non so quanto riuscirò a vedere, mi incuriosisce, però, nella costante apertura del Teatro di Roma alla drammaturgia contemporanea (dopo Candide con la reiga di Fabrizio Arcuri e Preamleto di Michele Santeramo diretto da Veronica Cruciani) andare a Indiaper  Friendly Feuer di Marta Gilmore. E poi Arancia Meccanica di Burgess,  in scena all’Eliseo (ci andrò, promesso!), Slot Machine di Marco Martinelli all’Angelo Mai, e ancora Thanks for vaselina di Carrozzeria Orfeo al Piccolo Eliseo, O della nostalgia di Angius-Festa a Carrozzerie NOT, Ascanio Celestini al Vittoria, e tanto altro tra Argot, Orologio, Cometa

Sono bei segnali (al di là dell’anglismo dominante in molti titoli), per un vecchio reazionario come me, che ritiene ancora necessario che il teatro possa parli la lingua del nostro tempo, che sia presente a se stesso, capace di dire con parole d’oggi, quel che accade.

Insomma, tra tutte queste novità di drammaturgia contemporanea, per il momento ne ho colte due, ugualmente interessanti pur nella diversità di codice e afflato.

Il primo è Caffettiera Blu, del gruppo Bluemotion, visto in prova all’Angelo Mai, che lo produce assieme a Sardegna Teatro, e ha debuttato a Ravenna. Il secondo è Magda e lo spavento, arrivato a India dopo due anni di apprezzatissime repliche.

Caffettiera Blu, regia di Giorgina Pi
“Caffettiera Blu”, in scena Mauro Milone

 

Caffettiera blu, con la regia di Giorgina Pi, è un sottile gioco creato dall’autrice inglese Caryl Churchill. La situazione immaginata dalla nota drammaturga è accattivante. Un quarantenne si “inventa” madri, ovvero si spaccia per il figlio abbandonato in gioventù da qualche malcapitata scelta a caso. Una truffa, insomma, ordita ai danni delle signore per estorcere chissà cosa, forse un po’ di soldi, o solo un po’ d’affetto. La situazione si svela gradualmente, nella sua reiterazione. Le donne reagiscono alla (finta) agnizione ciascuna a suo modo.

L’uomo, Derek (un bravo Mauro Milone, con quel volto pulito da criminale efferato) si presenta e le donne dissipano ogni dubbio, subito. Per senso di colpa, per amore, per nostalgia, riconoscono nell’uomo il proprio figlio, a prescindere. Attorno a un tavolo, fulcro di ogni incontro, si svelano segreti, ricordi, mezze confessioni. C’è quella che si commuove, quella che si colpevolizza, quella che invece non ha rimpianti.

Derek ha una fidanzata (intensa Laura Pizzirani) che non approva l’atteggiamento opportunista del suo compagno; e ha una madre (un cameo di Simona Senzacqua) resa evanescente dalla vecchiaia. Nella scansione ferrea di una voce fuori campo, si susseguono gli incontri fino al momento culmine, in cui l’uomo mette assieme due presunte madri. Nella confusione generale (l’una crederà l’altra la madre adottiva, convinta di essere quella biologica e viceversa), la hybris del protagonista verrà però punita.

Caffettiera Blu, di Caryl Churchill
“Caffettiera Blu”, di Caryl Churchill

Le bravissime Sylvia de Fanti e Aglaia Mora – davvero notevoli, impegnate anche in più personaggi di madre – riescono a tessere una partitura di non detto, di gesti infinitesimali, di slanci trattenuti che, nel crescendo della tensione emotiva hanno come esito paradossale e ulteriore l’annullamento sistematico del linguaggio, fino allo straziante finale.

Questo perché la Churchill mina la partitura verbale (quella gestuale è ridotta al minimo dalla severa regia) con dei cedimenti strutturali: due parole si innestano come virus, come deviazioni, come piccole follie, e fanno franare tutto l’impianto linguistico e comunicativo dei personaggi. Queste parole sono, per l’appunto, Caffettiera e Blu, che danno il misterioso titolo alla pièce: parole declinate come verbo, sostantivo, aggettivo, reinventate e gradualmente sempre più tagliate, frammentate. Sono le trappole che mangiano il dialogo e assolutizzano nell’assurdo ormai solo sentimentale ed emotivo questa storia.

Allora la verbalizzazione diventa impossibile: proprio come le relazioni tra le persone; restano solo le intenzioni, gli slanci, le passioni. E la convezione si smonta, si frantuma fino alla forma basica, materica, di suono gutturale, di consonante secca come una frustata. Occhi, mani, fonemi per dire l’indicibile. Di fronte alla nuda verità, allo spettatore rimane un senso di vuoto, di spaesamento, di amara consapevolezza del nulla.

La regia di Giorgina Pi svela gusto e consapevolezza: al di là dell’invenzione linguistica, ossia del gioco testuale creato da Churchill (l’approccio ricorda un po’ la lingua Generalissima della prima Raffaello Sanzio), la regista riesce a creare un ritmo serrato e rarefatto al tempo stesso, a stabilire un fortissimo piano emotivo ancorché trattenuto, a dipanare la matassa sentimentale, guidando il solido gruppo di interpreti (volti che abbiamo imparato a conoscere nella lunga esperienza dell’occupazione del Teatro Valle) in un lavoro di grande nitore e intensità.

Federica Fracassi in Magda o lo spavento
Federica Fracassi in “Magda e lo spavento”

Di tutt’altra natura è la regia di Renzo Martinelli, con il milanese Teatro I, per lo spettacolo Magda e lo spavento. Terzo e ultimo capitolo di una trilogia composta da Massimo Sgorbani attorno alla figura di Hitler e dei suoi “amori”, questo ha come protagonisti il dittatore nazista e Magda Goebbels. Lavoro “saturo”, tesissimo, costantemente e millimetricamente sopra le righe, magistralmente interpretato da due giovani giganti della scena: Federica Fracassi e Milutin Dapcevic.

Nello scenario del teatro India (ma quanto sono sconsolanti e tristi quella sala ristrutturata male e quell’esterno praticamente abbandonato) i due sono là, eroi negativi sull’orlo della sconfitta, e poi nel bunker, a far discorsi deliranti e logicissimi, a parlare di Walt Disney e dei sette nani, di figli e di razza, di topolini e di sterminio, di cani  e deformità.

Il tutto incasellato in un gioco scenico nevrastenico, esilarante e disperante, volutamente sgradevole, che i due interpreti reggono con maestria. Sempre sull’orlo dell’eccesso, sempre un millimetro più in là del normale, ma senza mai perdere tensione, controllo perfetto del clima e della temperatura dei propri personaggi, Dapcevic e Fracassi lavorano sul limite. Continuamente e consapevolmente attraversandolo e tornando indietro, spostando fino allo sfinimento l’asticella del possibile un po’ oltre: eppure in questo sovraccarico di tensione emotiva, segnati dal ruotare lento di un enorme ventilatore sul fondo, i due sono supermarionette che non rimandano direttamente all’iconografia classica (niente baffetti, per lui, se non nello svelamento finale). Ci sono balletti biomeccanici che nulla hanno a che fare con il piano testuale, ci sono slanci erotici che travalicano il senso delle parole: vertigini, insomma, e spirali avvolgenti che avviluppano lo spettatore e lo travolgono annettendolo al delirio della coppia nazista. Potere e follia, delirio e impotenza, stasi e azione si mescolano nel frullatore di eccessi verbali, di discorsi strabordanti, di analitiche digressioni esistenziali.

Milutin Dapcevic e Federica Fracassi
Milutin Dapcevic e Federica Fracassi

Lo spettacolo, del 2014, è già stato molto recensito e volentieri rimando ai lavori dei colleghi (ad esempio qui). Ma mi preme però sottolineare, ancora una volta, la qualità del testo di Sgorbani, che merita attenzione. Ben scritto, calibrato, ironico, capace di aggirare i luoghi comuni su due figure appartenenti all’immaginario collettivo e di svelarne aspetti nuovi, inusitati, originali e grotteschi. Nel rimando al dettato storico, si dipanano monologhi che comicamente evocano Donald Duck o Micky Mouse e, sulla partitura sonora di Fabio Cinicola, pervasiva e ossessiva, Magda e lo spavento si rivela come uno spettacolo sapientemente asfissiante, incalzante. Ecco lo spavento del titolo: è dello spettatore, messo spalle al muro di fronte alla lucida bestialità nazista, alla totale dedizione al male, all’appassionato e svergognato abbandono a una violenza (im)possibile.

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