Teatro
Papaioannou: genio di questo tempo
Ma che bella sensazione trovarsi di fronte a The great Tamer, titolo inglese dell’importante produzione del greco Dimitris Papaioannou.
Alle Fonderie Limone di Moncalieri, nell’ambito di Torinodanza – il festival diretto, con slancio e felici intuizioni della neo insediata Anna Cremonini – Papaioannou ha mostrato il suo talento arioso, complesso, visionario, diretto, semplice, potente. Il pubblico torinese, che ha affollato le tre repliche, ha accolto come un respiro profondo il lavoro, ha assistito silente e partecipe, per poi tributare un applauso davvero vibrante, commosso.
Lo spettacolo era già stato in Italia, lo scorso anno a Napoli, ma ben hanno fatto, dunque, il Festival torinese e il Teatro Stabile di Torino, a riproporlo, perché certe opere vanno viste, vissute, sentite.
La sensazione, allora, è quella di vivere un tempo speciale, in un mondo sospeso, ricco di immagini, invenzioni e pensieri. È una coreografia meravigliosa in cui nessuno danza (o quasi: ma il corpo, quello sì, è celebrato in tutte le sue possibilità); oppure uno spettacolo teatrale in cui nessuno pronuncia una parola, in cui il filo delle sequenze è astratto e allusivo eppure concretissimo e narrativo. Magistrale unioni di queste due possibilità, The great Tamer mostra i caratteri di unicità e novità che connotano questo artista.
Che Dimitris Papaioannou sia animato da spinte di assoluta genialità è da anni noto in tutto il mondo. Per me è una novità, è la prima volta infatti che vedo un suo spettacolo dal vivo, e avere a che fare con l’evidenza della sua creazione significa lasciarsi andare a quel respiro – personale e collettivo – che si assume nel tempo “altro”, rarefatto, di The great Tamer (ossia “Il grande domatore”, proprio il Tempo nelle intenzioni dell’Autore).
Ecco, per me, profano di tutto, questo lavoro è stato un’assoluta sospensione nel vuoto siderale, un fare i conti con un senso cosmico di relatività, con il buco nero di un tempo talmente astratto da risucchiarti dentro. Teatralmente, lo si potrebbe accostare alle sensazioni che si percepiscono, per fare esempi recenti, nei migliori lavori di Bob Wilson (peraltro riferimento formativo, dichiarato e citato apertamente da Papaioannou) o in certe algide e ironiche astrazioni operate da Romeo Castellucci.
Lo spettacolo indaga, così siamo informati, il mito di Persefone. Va bene, rintracciamo infatti molti rimandi, possibili spunti, suggestioni alla storia della figlia di Zeus. E così proviamo, accostandoci allo spettacolo, a decifrare, catalogare, tradurre tutti le evocazioni possibili: creature mitiche e quadri molto noti (da Mantegna, subito in apertura con un Cristo Morto che però continuamente si svela, a Rembrandt o Botticelli con una venere “al maschile” mossa dal soffio vitale di tre donne); citazioni cinematografiche immediate come al Kubrick di 2001 o a riti e divinità dell’antica Grecia.
Ma, per quel che mi riguarda, ho abbandonato ben presto questo “compito” del critico che ha l’obbligo di ri-conoscere. Potremmo fare l’elenco delle citazioni o delle evocazioni: ma poi? Basterebbero per cogliere l’essenza dello spettacolo? Allora mi sono fatto prendere per mano, per gli occhi, per il cuore dalla coreografia.
Non c’è emozione: si ride, o si sorride in alcuni momenti spiazzanti, ma in genere tutto appare algido, smaccatamente teatrale, freddo e nero come i costumi eleganti dei danzatori e delle danzatrici. L’immagine, il senso profondo dell’immagine mitologica, è uno dei fuochi,la chiave di una “iconologia” oppure di una “iconografia” creativa che attanaglia il mito stesso, e che avrebbe affascinato anche Aby Warburg.
Ci sono scarpe al centro dell’attenzione – sarebbero piaciute a Pina Bausch – che hanno radici profonde, sono impiantate in terra, radicate agli inferi. E lo spettacolo, allora, si tramuta dolcemente in un compianto, in un lutto, nel continuo fare i conti con la morte e subito negarla, nell’affondare sin dentro la terra e risorgere, nell’ostinata voglia di vita del genere umano. Quel che c’è sotto, agli inferi o nella memoria, e quel che vive sopra si contaminano continuamente. Su una scena di meravigliosa povertà – anche qui, che bello avvertire la sapienza di Kounellis! – fatta di tavole, pannelli di fragile e resistentissimo legno che si spezzano, si spostano, coprono, svelano, si ribaltano nel loro lato candido, e poi disseminata di fosse, buche, fonti d’acqua, si muovono dunque i dieci impeccabili danzatori. Con eleganza raffinata, con composta ironia, con distaccata adesione compongono e tessono le trame del disegno di Papaioannou. Si spogliano, si svelano, avanzano nel tempo – fino a diventare astronauti kubrickiani – o tornano alle origini, alla materia prima che impasta ogni Mito: busti di donna su gambe di uomini, creature, al fine, che sono spesso simbolo di morte e rinascita.
Tempi spostati, si diceva, sospesi in un altrove che meglio di ogni altra sensazione connota la distanza di Proserpina. Eccolo il suo mito: a lungo lontana, sempre troppo poco presente, di qua o di là, combattuta com’è tra il buio degli inferi e il sole della vita. E qui assurge a simbolo della nostra stagione, è il nostro stare al mondo nella mancanza, nella separazione, nella distanza.
La plasticità, la giovinezza, dei corpi nudi è immediatamente rinnegata da un memento mori, da immagini barocche – un grande libro, le arance, il teschio umano che rimangono sul finale – che contrappuntano con il loro senso di pesante passato la bellezza presente e viva.
The great Tamer è un’opera di scavo, di archeologia dell’umano, è un affresco fatto di ossa, reperti, memorie, ma senza alcuna retorica anzi, nella semplicità e nella gioia di chi sa la bellezza del vivere. Sulle note del famoso valzer Il Danubio blu di Johann Strauss, reiterate ossessivamente e trattate, modificate, violentate, sospese e reinventate da Stephanos Droussiotis, i quadri di Papaioannou prendono vita, sono allora statue dell’antica Grecia, certe pitture vascolari, insomma proprio quell’idea di bellezza forse archetipica, che eternamente scompare e ritorna.
Ecco perché questo spettacolo è un capolavoro: per la sua essenzialità, per la sua fantasia, per la sua empatia, per la sua freddezza. Misterioso e semplice, affascinante e conturbante, è un sincero “canto alla durata”, come direbbe Peter Handke, alla continua, inesorabile fugacità della vita.
Proserpina è là, si avverte il suo sorriso, in mezzo a quelle frecce che, lanciate in aria, diventano un campo di grano conficcandosi sul palcoscenico.
Nella composizione, prodotta da Onassis Cultural Centre, con una miriade di partner internazionali, ci sono invenzioni e giochi artigianali di grandissimo effetto, molto divertenti e sorprendenti. Altre situazioni appaiono solo un poco compiaciute, quasi che la travolgente visionarietà di Papaioannou abbia voluto concedere al pubblico anche qualche “effetto”, che potesse regalar stupore. Ma insomma qui abbiamo a che fare con qualcosa di straordinariamente potente, visionario, stimolante, intelligente, raffinato, divertente. Che altro?
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