Teatro
Paolo Poli è tornato al Teatro Valle
Se n’è andato due anni fa, Paolo Poli, uno dei grandi, insostituibili genii del teatro italiano. Ci manca, manca la sua ironia, la sua feroce leggerezza nel prendere in giro tutto e tutti, a cominciare naturalmente da se stesso. Ben ha fatto, dunque, il Teatro di Roma ad aprire quel che resta del Teatro Valle a una straordinaria, vivace, colorata, completa mostra sul lungo percorso teatrale di Poli.
In una serata inaugurale che ha visto la partecipazione del Ministro Bonisoli, del vicesindaco e assessore alla cultura di Roma, Luca Bergamo, di Antonio Calbi, direttore uscente del Teatro di Roma, e soprattutto di mezzo teatro italiano, Paolo Poli è tornato a motteggiare, a cantare, a recitare con immutata freschezza e bellezza.
La presentazione è stata condotta con il consueto garbo e affetto da Pino Strabioli, che con Poli ha tanto lavorato (ed è autore del libro “Sempre fiori, mai un fioraio“, che sin dal titolo la dice lunga sulla visione del mondo di Poli), ed è stata una vera e propria serata d’onore, tra sorrisi, risate, ricordi, aneddoti, battutacce. C’erano davvero tutti: Franca Valeri – che ha interrotto il discorso di Bergamo per dire che «in un paese civile il Valle sarebbe già riaperto», e l’assessore naturalmente le ha dato ragione, ricordando quanto sta facendo per superare le magagne legate allo storico teatro – poi Renzo Arbore, Marco Messeri, Carla Fracci e Beppe Menegatti, Gigi Proietti e tanti, tanti altri. Legati dall’amicizia, dall’ammirazione, dall’amore per Poli.
E il critico Rodolfo Di Giammarco, che con Andrea Farri, nipote di Paolo, ha curato il bell’allestimento, ha accostato il genio dell’attore e regista alla verve di David Bowie, sin dal titolo della mostra, quel “Paolo Poli è…” che richiama il vicino “David Bowie is…” con cui il musicista è stato recentemente omaggiato.
Ma non solo: per la mostra, Di Giammarco ha evidenziato un rimando che è stato modello per l’esposizione, ossia Bill Viola, con i suoi quadri “in movimento”. Così, il Valle, dove Poli ha spessissimo lavorato, si presenta ora come una supertecnologica istallazione d’arte, con 40 video sparsi in tutti i palchetti e proiezioni sul soffitto di un Poli gigante che dal cielo continua, sornione, a guardarci.
E poi 400 foto, i bozzetti delle scene di Lele Luzzati, a proposito del quale Poli disse più o meno: «Io gli davo le indicazioni, lui faceva come gli pareva»; e i costumi di Santuzza Calì, con quei raffinatissimi tessuti, esposti in modellini e manichini vestiti: tutto per completare il ricco immaginario di quel mondo unico, colorato, vivace, che era il teatro di Paolo Poli.
Di Giammarco, poi, ha raccolto, nel foyer, proiettati su un video wall i 568 appellativi con cui la stampa nell’arco di più di mezzo secolo ha descritto Poli (da “acrobatico” a “zitellesco”), tutt’ora a rappresentare le facce multiformi del suo essere artista. Se ne possono aggiungere altri?
Paolo Poli, ovvero la genialità irriverente, maliziosa, argutissima: sempre elegante, sorridente, coltissimo, ingordo di quella cultura popolare, minore, tradizionale del nostro paese bigotto e moraleggiante. “Primattrice ”(ha sempre parlato di sé al femminile), Poli è stato artefice di un teatro libero e libertino al punto da risultare rivoluzionario.
Privo di qualsiasi condizionamento, ha combattuto con intelligenza una battaglia per rendere meno retrograda questa nostra Italia. Chissà che direbbero certi autorevoli esponenti del nuovo governo, tipo il ministro della Famiglia Lorenzo Fontana, e il suo clericale consigliere, don Vilmar, di questo genio che, in ogni suo lavoro, metteva al centro quel femminile che lui interpretava meglio di chiunque altro/a.
Sciantose o educande, monache (di Monza) o brillanti giornaliste, vispeterese o nemiche, virago o donzellette: dalla fine degli anni Cinquanta, Poli le ha interpretate tutte. Sempre sul filo dello scandalo, dell’indecenza, del sottile (ma neanche troppo) doppio senso, Paolo Poli ha giocato intelligentemente con il travestimento: smascherando bigotti, ben pensanti, retrogradi, moralisti e moralizzatori dell’ultimo minuto. Ha saputo attraversare il secolo, con una quantità sterminata di spettacoli, incarnandone pulsioni e ardori, miti e icone.
La mostra del Teatro Valle, allora, riesce a ricostruire, e forse a svelare, tanto: la cultura teatrale profondissima, il sapere enciclopedico, il senso di libertà, di spregiudicata vitalità, la professionalità assoluta, l’instancabile passione.
Chi aveva il piacere di incontrarlo, di parlargli, trovava in Poli un conversatore affabile, coltissimo, che sul filo dei ricordi, aveva frecciatine (e pettegolezzi) per tutti. E molte di quelle pungenti osservazioni sono state evocate durante la “vernice” della mostra. Con quel suo gusto tagliente di cui si era fatto paladino, Poli smascherava ipocrisie, perbenismi, convulsioni e contorsioni del presunto genio italico, riportando tutto “a terra”, al gusto greve delle canzonette, o meglio al nudo di quanto accade sotto le lenzuola. Era un modo di parlare, il suo, di un’Italia più vera, certo meno presuntuosa, quasi ad assurgere, involontariamente a contraltare – privo di retorica, più bonario e empatico ma altrettanto lucido – di Pier Paolo Pasolini
E nella felicità di quegli spettacoli “all’antica”, imbastiti coi bei costumi, con le quinte dipinte, con quei “boys” che cantano e ballano, Poli sempre e comunque restava fedele a se stesso: Gozzano, Savinio, Apuleio, Swift, Dumas, Parise, Satie, Palazzeschi, Diderot, Wilder, Ortese, Pascoli erano solo spunti, modi per parlare di sé e del mondo.
Consentitemi un ricordo: molti anni fa, al Teatro Due di Parma, dovevo condurre un incontro con il pubblico in occasione di uno spettacolo di Poli. Lui mi convocò, un’oretta prima dell’orario stabilito, per chiacchierare, per conoscerci, mostrandosi – giustamente – diffidente nei confronti di uno sconosciuto giornalista. Di tanto in tanto faceva domande apparentemente svagate, ma insidiose: «Come si chiama quel pittore che faceva tutte quelle bottigline?» e io, timido: «Morandi».
E lui: «Ah già…» come se l’avesse ricordato grazie a me, e dopo poco: «o come si chiamava quell’altro, che faceva le mucche maremmane?» e io, diligente: «Fattori». Risposi bene su Rosai, ero impreparato su De Pisis, ma ho retto su Rosso Fiorentino e Savinio. Solo a quel punto, passato l’esame (anche se non a pieni voti), Poli mi ha “accettato” come intervistatore. Poi, feci una domanda sulle donne, e lui mi rispose sfrontato: “O cosa vuoi che ne sappia io delle donne? Chi le ha mai viste?”.
Era semmai da chieder lumi alla sorella Lucia, anche lei grande attrice, fieramente presente in sala per l’inaugurazione della Mostra. «Mia sorella è molto più virile di me», amava ripetere sornione. E al Valle, Stefano Benni, ha ricordato come in gioventù lui e i suoi amici bolognesi erano innamorati o di Paolo o di Lucia o di tutti e due e di quanto spesso i primi spettacoli di Paolo finissero in rissa tra spettatori “conservatori” e “innovatori”.
Il pubblico rideva dei suoi lavori, sempre sorpreso, spiazzato: a volte ci voleva qualche istante per capire i doppi e tripli sensi, gli ammiccamenti, le libere interpretazioni dei testi. Poli ha donato quel gusto malizioso e feroce di guardare al mondo, quel non prendersi mai troppo sul serio – in epoca di grandi guru e di serissimi maestri – quel giocare al teatro facendone una bellissima, commovente, poetica e cialtronissima festa. Lui che amava il kitsch involontario della compagnia D’Origlia-Palmi, aveva in dote una naturale “metateatralità”, ovvero la capacità di “mostrarsi” mentre, ancora e sempre, giocava. Rendendo più bella, e più divertente, questa Italietta.
PAOLO POLI È… mostra multimediale su Paolo Poli; a cura di Rodolfo di Giammarco e Andrea Farri.
La mostra “Paolo Poli è…” resta aperta ancora fino al 4 novembre.
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