Teatro

Oscar WIlde: con l’Elfo il suo Earnest parla ancora

20 Febbraio 2019

Una mia carissima amica, appassionata cultrice di aforismi, ogni mese invia a un piccolo gruppo di lettori una raccolta di frasi più o meno celebri di vari autori. Aforismi puntuti, che regalano, spesso, più di un sorriso. Cosa è un aforisma? In fondo è intelligenza, sintesi, ironia, distacco, preveggenza, arguzia, malizia… è la capacità di raccogliere in un “distico”, in una frase, uno spaccato di vita, un giudizio, una critica.

Tra gli autori che la mia amica cita di continuo c’è Oscar Wilde. Non manca mai.

Probabilmente, più di ogni altro (sono pochi a competergli), Wilde è il precipitato di quelle smaliziate caratteristiche. Nella sua opera, nella sua vita – peraltro coincidenti – vi è tutto. In parte anche, inutile negarlo, il peso del tempo, figlio com’era di una stagione, di un clima e di una temperie culturale abbondantemente passata ma mai del tutto superata.

Eppure, a riascoltarlo, a rivedere in scena le sue commedie, si avverte ancora il brivido frastornante dell’incontro con un uomo straordinario, con una testa fuori dal comune, con un rivoluzionario bello e buono, che ha combattuto battaglie durissime, uscendone a volte amaramente sconfitto – e l’esperienza carceraria è la grottesca e crudele dimostrazione dell’aspro rifiuto che il mondo del suo tempo espresse nei suoi confronti.

Spirito libero, dissacratore, fustigatore delle convenienze e delle apparenze, innovatore assoluto di stili e tendenze: le frustate di Wilde contro la buona società, oggi possono suonare come sornioni ammonimenti, o magari come spiazzanti aforismi – appunto – degni però di ogni attenzione. Perché, parafrasando il Bardo, ci sono più cose in quelle caustiche battute, che in un trattato di filosofia.

Wilde sapeva con chi aveva a che fare, sapeva se stesso, e si divertiva a sovvertire ogni ordine prestabilito, ogni gerarchia, ogni autorevolezza. Eppure, oggi il suo teatro sembra interessare poco le scene italiane. Certo, sono commedie “che si sanno”, che si conoscono – almeno tra gli addetti ai lavori – ma non finisce di divertire e, se vogliamo, anche di sorprendere.

 

Ida Marinelli e Riccardo Buffonini, foto di Laila Pozzo

Ben ha fatto, allora, il Teatro dell’Elfo a riprendere uno dei cavalli di battaglia dell’autore: L’importanza di chiamarsi Ernesto, scritto per questa nuova versione con il nome di persona cancellato da una riga nera: un Ernesto senza Ernesto, insomma, ovvero un omaggio smaccato e diretto alla partitura scenica, senza star troppo a pensare alla possibile traduzione (giocando sull’onomatopea di Earnest, quanto si è cercato in passato di dar senso a quel nome! Onesto, Franco, Probo e via fallendo…).

Con la regia, le scene e i costumi di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia, il lavoro dell’Elfo è un affresco felice, definibile forse solo con una raccolta di ossimori: ingenuamente ingegnoso, candidamente malizioso, tradizionalmente innovativo. Reazionario e rivoluzionario: ma si sa, ogni antimoralista in fondo è sempre moralista.

Francesco Frongia e Ferdinando Bruni

Spettacolo volutamente sopra le righe, dunque, giocato sul filo della (auto)parodia e di una vispa metateatralità, con la consapevolezza cioè da parte di tutti (pubblico compreso) di fare la commedia di Oscar Wilde, il cui volto non a caso giganteggia sulle immagini proiettate a mo’ di sfondo. È là, nume tutelare e controllore, omaggiato e temuto: sa, Wilde, che è stato lui stesso, con la vita, con la sua condotta a dare ulteriore spessore alle sue commedie. Così, al pari, in scena, il personaggio Ernest non esisterebbe senza Algernon, ossia senza Oscar.

E la regia lo sa bene: con un ritmo a volte indiavolato altre più blando, punta sulla complicità di chi fa e di chi vede, quasi dicesse “non c’è altro da inventare”, basta giocare il testo, e far giocare gli attori perché tutto avvenga. In un ambiente accesissimo, vagamente Swinging Londo, al cast spetta il complicato compito di giocare a quel teatro, di fare tre salti mortali sul posto per recitare la recitazione, per dare carne alle invenzioni linguistiche di Wilde. Allora, non sono più solo freddure o aforismi, ma una contagiosa festa tutta teatrale che ancora ha il senso di mostrare e svelare i perbenismi, i bigottismi, l’opportunismo della classe al potere.

Tutto il cast, foto di Laila Pozzo

Dunque meritano ogni attenzione gli interpreti: gli ottimi Giuseppe Larino e Riccardo Buffonini (ossia Ernest e Algernon-Oscar); la travolgente burbera benefica Ida Marinelli nei panni di lady Bracknell; e con loro Elena Russo Arman felicemente insopportabile come Gwendolin; Camilla Violante Scheller che è una tosta Cecily, Luca Torraca che caratterizza con candore il suo reverendo Chasuble, la bravissima Cinzia Spanò totalmente trasformatasi nella ambigua e melodrammatica istitutrice e infine Nicola Stravalaci nel doppio ruolo di maggiordomo e cameriere (che trasforma in un cechoviano e rantolante omaggio a Firs). Compatti, divertiti, eleganti, generosi: tutti.

Visto nell’ambito della stagione alla Sala Umberto di Roma, affollata per la prima, L’importanza di essere Ernesto ha regalato ancora risate e frecciate. All’uscita qualcuno, una signora molto elegante, chiedeva a voce troppo alta che senso avesse ancora lo spettacolo, senza accorgersi che forse, il vecchio Oscar, parlava anche di lei…

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