Teatro

Odisseo, il mare e gli immigrati (con una nota a margine)

12 Dicembre 2015

«Dice che era un bell’uomo e veniva dal mare», cantava il poeta. E gli faceva eco il Mimmo nazionale con “Marinai, donne e guai”. La suggestione del mare è forte, e di lunga gittata: non si scardina, anzi si moltiplica e si riverbera nei suoi mille rivoli. Da Corto Maltese al capitano Achab, da Cristoforo Colombo al Corsaro Nero al cuoco Ransome di Linea d’Ombra, i protagonisti del mare sono sempre, assolutamente, affascinanti. Allora mi piace mettere assieme il racconto di due spettacoli che parlano di mare in modo diversissimo.

Il primo non poteva non essere una Odissea, inattesa e sorprendete. Odisseo, si sa, è il primo ad aver inventato il turismo da crociera o, meglio, addirittura il turismo sessuale, con quelle soste certo non caste tra gli scogli di Calipso o tra le braccia di Circe.

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Jacopo Venturiero è Odisseo, foto di Anna Faragona

La sua avventura è stata narrata, e rappresentata, infinte volte. Però vale la pena andare al nuovo Spazio Diamante – un centro grande e bello dedicato per lo più alla formazione di danzatori – dove va in scena (ancora oggi e domani) la versione diretta con gusto da Vincenzo Manna e Daniele Muratore, con la supervisione dell’occhio vigile di Andrea Baracco. Odissea da Omero a Derek Walcott, questo il titolo per esteso del lavoro che guarda più alla riscrittura del Nobel caraibico che non all’originale epico. Con una struttura scenica semplice ma funzionalissima, i registi firmano un allestimento nitido, efficace, con slanci di intrigante inventiva. Ben interpretato da un cast affiatato e giovane, che affronta anche doppi ruoli – in cui spiccano certo il protagonista Jacopo Venturiero, la bravissima Elisa Di Eusanio (Circe e Ciclope), la sottile Francesca Agostini (Atena e Nausicaa), il Telemaco di Federico Brugnogne e la Penelope di Eleonora Pace – la storia si dipana per quadri che si susseguono a ritmo serrato. Non mancano invenzioni sceniche considerevoli, si diceva, ottenute con pochissimi elementi: dall’affascinante soluzione per dar vita al Ciclope, passando per l’orgiastico mondo di Circe, fino ad approdare al “ritorno a casa”, affrontato con grande poeticità e tenerezza. E le peregrinazioni di Odisseo ci sono tutte, in questo mare senza mare che è il teatro.

Strano allestimento e curioso progetto, dunque, da non sottovalutare: un nuovo spazio, una lunga tenitura (sono in scena dai primi di novembre), un gruppo muscoloso e vitale di attori, una regia intrigante. Non tutto è risolto, a volte la qualità interpretativa lascia un po’ a desiderare, c’è un po’ di dialetto e qualche megafono di troppo, e forse non si capisce bene (almeno io non capisco) a che pubblico si rivolga – ad esempio potrebbe essere adattissimo a un pubblico di adolescenti. Ma nell’insieme questa Odissea è davvero un buon manufatto, onesto, divertente.

Aleksandros Memetaj in Albania Casa Mia
Aleksandros Memetaj in “Albania Casa Mia”

Altra storia di mare, di stampo diversissimo, è Albania Casa mia.

Monologo visto al Teatro Argot, interpretato con splendida adesione da Alekandros Memetaj, con la regia di Giampiero Rappa. Il giovanissimo attore racconta, in perfetto italiano e con cadenza veneta, la sua storia di “immigrazione”. Figlio di albanesi arrivati in Italia, tra innumerevoli difficoltà e pericoli, con la prima ondata di fughe via mare da Valona – vi ricordare quelle “carrette” stipate all’inverosimile – Memetaj ripercorre la sua infanzia di bambino bilingue, poi la vita di adolescente inquieto, e infine di giovane uomo che vuole conoscere il passato della sua famiglia. Di quel padre che è figura forte, a volte respingente eppure amata.

Ricostruisce le peripezie che l’uomo ha dovuto attraversare, semplicemente per potere vivere; evoca i sogni e le aspirazioni; non nasconde la diffidenza e il razzismo veneto;  dice di sé, dei primi viaggi in Albania, della riscoperta di tradizioni, suoni, sapori della sua famiglia. Ovviamente è materia incandescente, che Alexandros Memetaj porge agli spettatori con grande adesione emotiva: non potrebbe essere altrimenti, trattandosi – in buona sostanza – della sua vita e di tanti come lui. Ed è materia estremamente attuale, come si può immaginare: dunque ascoltare questa storia, detta con tanta passione, non può non suscitare empatia, domande, riflessioni. Nell’allestimento, lasciano un po’ perplessi certi stilemi ormai consunti di “teatro di narrazione” – quel modo di muovere le mani, certa struttura nella frase (che poi, con cadenza veneta, fa subito Marco Paolini) – però l’esito si tiene. E dei momenti sono proprio toccanti: il racconto della traversata, della fuga clandestina, di quel “salto” finale una volta raggiunto il porto italiano è bellissimo. A cambiare la prospettiva, a guardare con gli occhi dell’Altro, la storia si rovescia. E i tanto famigerati e inseguiti “clandestini” si svelano per quel che sono: due giovani e spaventati genitori, un bimbo appena nato e con la febbre, che cercano un riparo, una capanna dove riposarsi e vivere.

Dario Aggioli in Gli Ebrei sono matti
Dario Aggioli in “Gli Ebrei sono matti”

Un ultimo cenno, la nota a margine, infine, per un piccolo gioiello teatrale, anche se non parla di mare.

Ieri sera ho visto la centesima replica di Gli ebrei sono matti, diretto da Dario Aggioli, spettacolo ormai cult della scena underground non solo romana. L’ho perso – colpa mia – per 99 volte. Ma alla centesima c’ero, e ne sono contento. Gli ebrei sono matti è già stato stra-recensito, dunque ho poco da aggiungere ai tanti bei commenti (e premi) che ha ricevuto. È un piccolo flash, un affresco appena abbozzato – però con grande cura – di una situazione umana. Sotto la guerra, un matto e un ebreo, chiusi in un manicomio piemontese. L’uno, figlio di un mascheraio, continua a parlare di Mussolini, l’altro si finge matto e lo imita, per salvarsi dalle leggi razziali: ecco, ridotta all’osso, la trama.

Il finale è tragico, non poteva essere altrimenti. Dario Aggioli (il matto Enrico, chi sa se anche lui realmente pazzo oppure no) e Guglielmo Favilla (l’ebreo Ferruccio) sono bravissimi a dar corpo e voce a spasmi, fratture, tensioni, paure di due esserini alle prese con la macchina livellatrice della Storia. Usando un modulo verbale e narrativo originale, fatto di grida e sussurri, con aperture e chiusure sorprendenti, e con bellissime maschere, i due riescono a raccontare – con ironia, candore, rabbia – molto, davvero molto di più, di quel che mostrano. Auguri per altre 100 repliche.

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