Teatro

Odin Teatret, un albero dalle radici forti

8 Ottobre 2017

A guardarla dalla macchina, la Puglia – almeno quelle terre che portano al Salento – è una distesa di ulivi a perdita d’occhio. Una macchia di verde, intensa, dove si scorge sempre più la bruciatura, la ferita, della xylella. Il virus, il parassita che ha infestato, nell’indifferenza nazionale e nell’impreparazione politica, buona parte delle coltivazioni. Gli alberi si seccano, bruciano, muoiono. L’ulivo, che di questa terra è simbolo, sembra destinato a perire. Insieme alla memoria, alle attività che nascevano attorno all’albero.

Ecco, mi piace pensare che forse non sia un caso che l’Odin Teatret di Eugenio Barba abbia portato al teatro Koreja di Lecce (che peraltro aveva aperto la stagione con un omaggio all’ulivo pugliese) il debutto nazionale della nuova produzione, intitolata proprio L’albero. Non che il danese Odin abbia voluto investigare lo scandalo della xylella pugliese, ma certo ha saputo cogliere il valore simbolico, eterno e presente, dell’albero nella comunità umana. L’Odin era stato in Salento nel 1974 in un celebre viaggio che aveva messo a confronto saperi teatrali e cultura contadina: da allora è tornato più volte in Puglia, terra d’origine di Barba, e oggi offre allo spettatore uno spettacolo spaccato, segnato, proprio come gli ulivi colpiti di questa regione.

Vi è una sapienza antica, un guardare attraverso il teatro la condizione umana, un mettersi in scena senza farsi sconti. Lo spettacolo, visto a Koreja, è un capitolo nuovo della decennale ricerca dell’Odin, eppure contiene in sé, direi custodisce il segreto, tutto quello che il gruppo di Holstebro ha insegnato e imparato nel lungo viaggio iniziato nel 1964.

Il pubblico entra in una specie di ambiente ovoidale, chiuso al soffitto da due grandi tele/vele. È lo stesso Eugenio Barba a sistemare gli spettatori su delle strane sedute, degli enormi tubi di gomma che ben presto – quando saremo tutti stretti, uno a fianco all’altro – si riveleranno strutture simili a quelle dei gommoni che ogni giorno fanno la spola nel mediterraneo (la scena è di Luca Ruzza). Tubi robusti, ben gonfi, ma pur sempre simili a quelli dei gommoni: siamo tutti migranti, a questo mondo, ci dice il gruppo che forse più di qualsiasi altro ha girato il continente del teatro.

Al centro della scena, pezzi di un albero scenografato, che ben presto verranno ricomposti per dar vita a una struttura scheletrica, beckettiana quasi, sicuramente spoglia, netta. Un albero disabitato. Il dramma, messo in scena da una violinista punk e da una cantastorie indiana, è questo: è un’allegoria, una grande metafora, forse una parabola e narra di un mondo – fuori e dentro il nostro mondo – in cui sono spariti gli uccelli. Non se ne sente più il canto. Scopriremo che quell’albero, un pero, è stato piantato da un poeta per la nascita della figlia. Ma ormai è silenzioso, il cielo è vuoto: gli uccelli, il cui canto avvertivamo all’inizio della rappresentazione, se ne sono andati. Non per migrare, ché sarebbe cosa naturale, ma proprio per allontanarsi da questa umanità. Saranno due monaci yazidi a dover fare i conti con la crudeltà del genere umano, con la violenza, la sopraffazione, i genocidi, le stragi, le migrazioni, i silenzi, le paure.

Lentamente si svelano tutti i personaggi di questo dramma morale: la “tigre” Arkan, il criminale massacratore di Srebrenica, un signore della guerra africano (dicono le note di regia ispirato all’allucinante figura del liberiano Joshua Milton Blahyi, capo di un esercito di bambini soldato), poi una donna nigeriana, madre di un bimbo soldato, che porta in un involto la testa decapitata del figlio. Le storie si intrecciano, le vite si incontrano. Ecco allora Iben, la figlia del poeta con i suoi desideri e i suoi giochi, ragazza che sogna di sfidare il Barone Rosso e presto diventata donna, ma ancora capace di carezzare vecchi peluche seduta su quell’albero senza foglie e senza frutti. Infine un servitore di scena, o un deus ex machina, che segherà il fusto. E soprattutto ci saranno dolori e disfatte epocali a contrastare ogni piccola speranza. Maschere, nasi rossi di clown, bambini-pupazzo: in questa allegoria che è la vita umana, tornerà a risuonare il canto degli uccelli perché l’albero della vita, l’albero della storia, tornerà a vivere.

 

Servirebbero quattro occhi per vedere questo lavoro. Due a seguire la vicenda generale, la scena con il suo montaggio nervoso, con i tagli e gli accostamenti azzardati, con una trama da dipanare nel suo essere misteriosa, e con i personaggi che attraversano gli spazi e i tempi. Poi servirebbero altri due occhi, più attenti eppure pronti a commuoversi di fronte ai dettagli, ai particolari. Ai piedi, alle mani, alle dita, agli occhi di questi straordinari intepreti. Cogliere la sapienza di ogni singolo gesto, delle controscene, delle tecniche orientali e occidentali. Vedere le smorfie che si fanno maschere teatrali, i passi che diventano coreografie, il ritmo che diventa canzone al suono dei tabla indiane, della fisarmonica, della tromba o del violino. Ci sono mondi che si inseguono e si intrecciano, in ogni attore dell’Odin, lo sappiamo da tempo. Ritrovarli in scena, alcuni forti di esperienze antiche – con i corpi che portano addosso lo scorrere del tempo, altri più giovani e acerbi – significa fare i conti con la lunga vita della compagnia. In rigoroso ordine alfabetico: Luis Alonso, Parvathy Baul, I Wayan Bawa, Kai Bredholt, Roberta Carreri, Elena Floris, Donald Kitt, Carolina Pizarro, Fausto Pro, Iben Nagel Rassmussen, Julia Varley. Nomi, alcuni di questi, che hanno fatto la storia del teatro.

Ed è una tenerezza infinita, allora, vederli muovere, saltare, suonare, ascoltare quelle voci. La tenerezza di un’aderenza, di un sapere tecnico incarnato, posseduto in ogni istante della messa in scena, senza distrazioni senza seduzioni. Non si fa finta che il tempo non sia passato, anzi: lo sanno bene loro, in scena, e lo sappiamo noi che li vediamo. L’Odin è sempre questa cosa qua. Teatro politico, si direbbe, certo poetico e coraggioso nell’affrontare – con i mezzi della scena – ancora i nodi dello stare al mondo, la sua violenza, le guerre recenti (troppo in fretta dimenticate non solo a teatro) e le persone. Un teatro di persone, che racconta di altre persone: se c’è una lezione, semplice e solo apparentemente ingenua, in questo spettacolo, è il cogliere il piacere antico, e perenne, di abbracciare un albero, di abbracciare la vita e la morte, con la gioia bambina di un gioco teatrale.

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