Teatro
Ocean Terminal: la vita di Piergiorgio Welby in scena
Raccontare la vita di Piergiorgio Welby affrontandone la complessità, senza cedere a facili mitizzazioni o mistificazioni non è un’operazione semplice. Troppo spesso identificato con la causa alla quale ha dedicato una parte della sua vita – la lotta per il diritto all’eutanasia – il “personaggio” Welby ha finito per nascondere, agli occhi del pubblico, la persona. Con lo spettacolo Ocean Terminal, tratto dall’omonimo romanzo scritto da Welby e pubblicato postumo a cura di Francesco Lioce, l’attore e regista Emanuele Vezzoli prova a restituire sfaccettature, sfumature a questa figura che per tanto tempo ha animato il dibattito pubblico sui diritti della persona in Italia. Si parte dall’infanzia cattolica del protagonista, la scoperta della malattia, il lavoro come artista e scrittore, l’immaginario hippy e la tossicodipendenza, per affrontare ogni angolo di una vita ricca di eventi e di esperienze, dentro le mura di casa e fuori nel mondo, attraverso la battaglia politica nelle piazze, la presenza mediatica. “Non esiste un’arte privata, un artista ha l’obbligo morale di incidere sulla realtà”. Ne era convinto Piergiorgio Welby, che sulla scena, attraverso l’arte, ritrova un contatto più umano, diretto, potente e corporeo con lo spettatore. Abbiamo intervistato il regista e protagonista della pièce, che andrà in scena al Teatro Due di Parma il 7,8 e 9 febbraio, Emanuele Vezzoli, per capire meglio il lavoro di “officina” intorno al suo Ocean Terminal.
Partiamo da una domanda banale: come mai scegliere di raccontare in scena la vita di Piergiorgio Welby?
La mia fonte di ispirazione deriva spesso dai fatti di cronaca, dai ritagli di giornale. Mi capita di leggere un articolo che colpisce la mia attenzione, lo conservo, incomincio a prendere appunti, immagino uno spettacolo. Mi è capitato in altre occasioni: un monologo sul femminicidio, sulla donazione degli organi, sulla vita di clochard… Quando ho avuto modo di leggere la recensione e il libro Ocean Terminal mi sono immediatamente chiesto come poter elaborare questo materiale così ricco, in termini di contenuti, di forma, di linguaggio.
Una riscoperta di Welby persona?
Una scoperta di Welby come uomo, come figura meno conosciuta dal grande pubblico al di fuori delle sue battaglie. Welby è stato un artista, uno scrittore, un attivista e solo per la grandezza delle sue battaglie e il dibattito ad esse collegato ha subito in un certo senso un appiattimento nella percezione collettiva.
Tutti ricordano Welby per la sua richiesta di “buona morte”, per i funerali negati…
Certo e questo è quello che, con questo spettacolo, spero di lasciare in secondo piano, quasi come sfondo (o meglio finale) di un percorso di vita lungo e, ripeto, estremamente complesso. Welby ha vissuto sessant’anni di amore per la vita. Di arte, di relazioni, di incontri e luoghi, di rapporto con dio, la filosofia, di gioia di vivere. Questo voglio restituire in scena. Un inno alla vita.
Si parla di valore politico dell’arte, della letteratura e della scena, ma cosa può fare il teatro per la società e per temi complessi come quello dell’eutanasia?
Partiamo da un elemento: questo non è uno spettacolo “militante” su un tema, ma un invito alla riflessione, per cercare di far comprendere al pubblico quanto possano essere indissolubilmente legati vita e buona morte. Una vita vissuta intensamente, con gioia e non con disprezzo. La nostra morte in fondo è già segnata, non è qualcosa che possiamo scegliere. Molti, criticando la scelta di Welby, hanno affermato che la vita è “un dono”, ma se si tratta di un dono a maggior ragione possiamo disporne secondo coscienza.
L’eutanasia però ha sempre posto un forte problema di coscienza in rapporto al valore, alla “sacralità” della vita…
La domanda di Welby di morte non dissacra la vita, ma è anzi la richiesta di una buona fine fatta da parte di chi ha esaurito tutto ciò che la vita poteva dargli. Alla fine Piergiorgio riusciva a muovere solo gli occhi…
Un corpo negato…
Il lavoro di mediazione tra intimo e politico è stato portato avanti, a livello scenico, lavorando molto sul corpo. Ho prestato il mio corpo a Welby, in un percorso di forte centralità del movimento, quasi un teatro danza. Musica, gesti, esprimono più delle parole creando un ponte empatico con il pubblico. Nelle rappresentazioni nei teatri stranieri molte persone hanno smesso di guardare i sottotitoli durante la rappresentazione… Si sono “limitate” a sentire. Questo è stato un elemento molto apprezzato anche dal pubblico cattolico.
Un’opera di umanità, con un forte senso politico quindi…
In questa tragedia, in senso classico, va in scena un rituale distante dalla mera mimesi e altrettanto dalla proposta di una tesi. Il teatro torna ad essere, come nell’antichità, tramite di una liturgia collettiva dalla quale le persone del pubblico possano uscire arricchiti da una maggior consapevolezza riguardo le infinite possibilità, visioni, sfumature dell’esistenza.
OCEAN TERMINAL
tratto dall’omonimo romanzo di Piergiorgio Welby
curato da Francesco Lioce
per Castelvecchi Editore
adattamento drammaturgico Francesco Lioce e Emanuele Vezzoli
movimenti scenici Gabriella Borni
disegno luci Claudio Coloretti
interpretato e diretto da Emanuele Vezzoli
produzione Fondazione Teatro Due
Teatro Due
7 e 8 febbraio, ore 20.30
9 febbraio, ore 16.00
Nella serata di sabato, al termine dello spettacolo, si terrà un incontro aperto al pubblico con Mina Welby, Francesco Lioce ed Emanuele Vezzoli.
Ph. Michele Lamanna
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