Teatro
“Nur” festival in Sardegna, le anticipazioni dei Motus e di Giorgina Pi
Creature postumane tra fantascienza, crisi climatica e realtà letteraria. Un mito ripescato dal passato dark dell’800 come “Frankenstein”, il racconto di Mary Shelley, è diventato favola noir e incantamento teatrale in una fresca notte d’estate in uno scenario unico costituito da rovine archeologiche sotto un cielo pieno di stelle. Sono così i Motus, pattuglia teatrale a sigillare l’ultimo appuntamento dell’archeofestival Nur, quindicesima edizione allestita dal Crogiuolo con la direzione artistica di Iaia Forte e Rita Atzeri in un luogo dal significato potente e, per alcuni versi, misterioso, quale è Arcu e Is Forros, in territorio di Villagrande Strisaili tra l’Ogliastra e la Barbagia. L’area, ricoperta da brulla vegetazione, roverelle e ginepri piegati dal vento di maestrale è situata in un forte pendio all’altezza di mille metri: un luogo di osservazione di valli, colline e montagne. L’insediamento si è sviluppato in un arco cronologico tra l’età del Bronzo medio (XV – XIII sec. a.C.) e il Bronzo recente e finale (XIII – IX sec. a.C.) durante il quale sono avvenute diverse trasformazioni edilizie spia di una economia in movimento segnata da un forte sviluppo della metallurgia e importanti contatti commerciali con l’area egeo-orientale e tirrenica.La zona è da considerarsi sacra vista la presenza di tre templi, il più imponente dei quali, rarissimo, è detto a “megaron”, dalla pianta rettangolare. Simile ad un secondo rinvenuto più in alto (tempio B) con un altare in pietra impreziosito da una singolare decorazione. Nelle immediate vicinanze si rintracciano anche i resti di un nuraghe a torre singola, una tomba dei giganti e un villaggio. Accanto al primo tempio sono state portate alla luce due fornaci di forma cilindrica per la fusione dei metalli e, di recente, anche un anfiteatro del quale sfugge ancora l’uso e il significato.
Il popolo e la cultura di questa isola al centro del Mediterraneo sono d’altra parte ancora in buona parte degli illustri sconosciuti. Chi erano? Da dove provenivano? Secondo ultime ipotesi, gli Shardana (questo il loro nome) furono stirpe di guerrieri, probabilmente organizzata in clan, che solcava i mari per traffici e commerci, ma per compiere anche veloci e trucide bardane. Oggi si contano più di ottomila nuraghi in tutta la regione ma molti stanno ancora sottoterra o sono stati demoliti per costruire chiese ed altri edifici. Questa gente possedeva buone conoscenze matematiche e di architettura come testimoniano le torri e i pozzi dedicati al culto delle acque. Navigatori e guerrieri, mercenari assai rispettati -il faraone Ramsess II li volle come guardia scelta- furono anche leader della Lega dei Popoli del Mare contro gli Egizi di Ramesse III. Questo accadeva attorno al 1200 avanti Cristo.
Ed è qui in questo contesto così carico di storia e significato che i Motus, seguiti da un pubblico numeroso, con il fiato sospeso, hanno dato vita a una mise en espace avvincente di un racconto poco conosciuto dal grande pubblico, “Frankenstein”, quello della scrittrice inglese Mary Shelley, moglie del poeta romantico inglese Percy Bisshe Shelley. In una una piovosa sera d’estate, ospite di Lord Byron in una villa sul lago di Ginevra, raccoglie infatti l’invito a partecipare a una competizione letteraria. La sfida è quella di scrivere il miglior racconto dell’orrore. E’ qui che nascerà il mito di “Frankenstein”, romanzo gotico narrato sotto forma epistolare che nei fatti anticipa la letteratura fantascientifica.
Il racconto del secondo “Prometeo” come Mary Shelley stesso aveva indicato (“Frankenstein or the Modern Prometheus”) prende le mosse in un angolo riparato dalle mura del tempio. Un ginepro piegato del vento delimita il triangolo che accoglie e racchiude, come fossero braccia possenti, l’attrice Silvia Calderoni che, solitaria davanti al microfono, è non solo attrice – come poche in Italia, in grado di dispiegare, sempre e comunque notevole forza magnetica- ma anche regista e levatrice di mostri postumani. Coadiuvata da Enrico Casagrande protagonista di un cameo in cui interpreta il mostro, Calderoni è Walton, giovane esploratore che nelle lettere alla sorella racconta drammi ed emozioni in prima persona. E’ il dottor Frankstein e, infine, la stessa sua Creatura: il mostro deforme a cui un giorno, dopo aver messo assieme pezzi e arti di uomini trafugati nei cimiteri, ha dato incredibilmente vita. Così Frankenstein, come Prometeo, ha sfidato l’autorità divina legando la vita a quella della sua creatura. Silvia Calderoni nei tempi e nelle pause dà il ritmo di una storia che ha dell’incredibile: solo apparentemente lontana e distante dal nostro tempo. Mette in crisi sicurezze sulla unicità dell’umanità ponendo in conto la possibile presenza, in un futuro neanche lontano, di esseri diversi. Qui è una umanità colta al bivio della sua storia come è sinistramente annunciato dal cambiamento del clima, una catastrofe che continua ad aleggiare come una maledizione.
Così quegli ultimi drammatici minuti della Creatura di Frankenstein sembrano un sinistro presagio. “Ma presto morirò», disse con un tono solenne e triste, «e ciò che ora sento sparirà. Presto queste pene ardenti si consumeranno. Salirò come in trionfo sul rogo della mia pira ed esulterò tra gli ultimi spasimi delle fiamme lancinanti. La luce dell’incendio svanirà. Le mie ceneri si disperderanno nel mare sulle ali del vento” (“Soon these burning miseries will be extinct. I shall ascend my funeral pile triumphantly and exult in the agony of the torturing flames. The light of that conflagration will fade away; my ashes will be swept into the sea by the winds. My spirit will sleep in peace, or if it thinks, it will not surely”).
“Frankenstein (a love story)”. Questo il titolo dell’allestimento che i Motus presenteranno in prima nazionale a Bologna, nella prima metà di ottobre, coprodotto da Teatro Emilia Romagna Ert/Teatro Nazionale e Tep-Festival delle Colline Torinesi, Kunstencentrum Viernulvier (Be) e Kampnagel (De), regia di Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande. Interpreti, oltre a Silvia Calderoni anche Alexia Sarantopoulou ed Enrico Casagrande.
Certo che la storia del rapporto tra la Sardegna e i Motus ha qualcosa di speciale. L’anno scorso i teatranti riminesi approdarono al programma della precedente edizione del festival in una location di forte fascino come l’imponente Nuraghe Arrubiu di Orroli, al centro della regione. Qui i Motus lavorarono duro per diversi giorni, mattina e sera, per allestire “Tutto brucia” (dalle “Troiane” di Euripide) in una straordinaria versione site specific che venne vista da centocinquanta fortunati spettatori accorsi da tutta l’isola. Una sola replica in una sola notte nel cuore della Sardegna. Un allestimento memorabile e unico. Lo spettacolo cementò anche un rapporto unico con quel pubblico. In parte coincidente con quello accorso anche a S’Arcu is Forros, dove era in realtà annunciato un altro titolo: ”You Were Nothing But Wind”, spin off tratto da “Tutto brucia”, ma che per motivi tecnici non è stato possibile rappresentare. I Motus hanno deciso così di regalare la mise en lecture di “Frankenstein” mai rappresentato prima. Una anteprima unica, anche stavolta come nel caso di “Tutto brucia” (mai più ripreso nella forma presentata ad Orroli). Insomma un evento memorabile come in parte lo è stato con l’anticipazione del futuro “Frankenstein”.
Le serate di “Nur” hanno talvolta presentato un doppio appuntamento. La serata dei Motus ad esempio, è stata introdotta in un altro spazio dall’arpista Raoul Moretti che con le sue musiche ha creato il climax giusto per l’appuntamento successivo. Strumentista di elegante virtuosismo ha incantato con le sue suite costruite con architetture dai suoni ipnotici. Acustica ed elettronica hanno costituito infatti il cuore di una esibizione di alto profilo e di bella classe musicale.
Un altro musicista – che ha agito sempre come battipista-l’inglese Christopher Benstead (no, non è l’autore delle colonne sonore di“The Gentlemen”e “The Covenant” ma un omonimo altresì importante) ha sorpreso per le sue composizioni tra english folk e pop che hanno accompagnato l’esibizione della danzatrice e coreografa slovena Andreja Rauch Podrzavnik, prima dello spettacolo di Mario Perrotta in “Come una specie di vertigine”. Benstead è musicista e compositore molto attivo nel mondo della danza, dove ha scritto numerose partiture per compagnie, non solo inglesi, ma di tutto il mondo. Segue e anticipa i movimenti della danzatrice in questa “Special edition”, performance che da quattro anni l’artista slovena propone nei luoghi d’arte. Andreja improvvisa liberamente, seguendo le linee del muro perimetrale del tempio a megaron lasciando ampi spazi alla raffinata capacità di Benstead di ispirarsi ai testi della poetessa macedone Lidija Dimkovska (le sue opere, romanzi e collezioni di poesie sono tradotte in venti lingue) per completare un incontro poetico e leggero tra danza e musica.
A seguire, mentre le ombre della sera si allungavano sul sito archeologico è stato poi il teatrante Mario Perrotta nel suo “only one man show” dedicato a Italo Calvino (“Come una specie di vertigine”) e del quale riprende in modo originale e ispirato il racconto de “La giornata dello scrutatore” (qui la recensione dello spettacolo scritta in occasione della prima al teatro Carcano di Milano: https://www.glistatigenerali.com/teatro/uomini-in-cerca-di-liberta-mario-perrotta-rilegge-italo-calvino/)
L’archeofestival “Nur” , nel corso di buona parte del mese di luglio ha proposto attrici importanti come la grande Maria Paiato, Anna Bonaiuto, Lucilla Giagnoni e Lorenza Zambon, coppie come quella formata da Iaia Forte e Tommaso Ragno, attori straordinari come Enrico Bonavera. Realtà locali quali Rossolevante e il Balletto di Sardegna.
Ad aver aperto lo scorso 17 luglio il festival del Crogiuolo, allestito da quindici anni in luoghi di interesse archeologico, è una regista di talento come Giorgina Pi giunta per la prima volta in Sardegna con la sua compagnia Bluemotion. Curiosità: similmente ai Motus ha presentato in anteprima una parte importante del nuovo lavoro ancora in progress, “SognoCreatore” e che vedrà la luce definitiva tra diversi mesi. E’ singolare che Giorgina Pi, dopo aver dato vita di recente a opere di forte impatto come “Lemnos” , e di notevole complessità registica, come “Pilade”di Pier Paolo Pasolini (andato in scena lo scorso febbraio all‘Arena del Sole di Bologna per il progetto speciale curato da Valter Malosti e dedicato appunto alla figura del grande poeta e cineasta italiano), abbia voluto anticipare per la prima volta un lavoro dedicato esclusivamente alla poesia femminile, proprio nell’isola dei poeti, la Sardegna, una terra dove questa arte espressiva è considerata sacra, sin dalla notte dei tempi.
Un “primo movimento” della durata di una trentina di minuti circa, ma già sufficiente per vedere la filigrana di un lavoro difficile e coraggioso che getta i suoi dardi nel cuore intimo e segreto della creazione lirica. Un’opera che, sin dalle prime sequenze, appare particolarmente popolata di atmosfere evocative del mondo dei sogni, accompagnata con discrezione da una intrigante colonna sonora di musiche e voci magnifiche e poco conosciute come quella della straordinaria Nena Venetsonou in “Le notti d’agosto”. In scena due attrici di bella sensibilità come la solida e diretta Sylvia De Fanti nei panni della poetessa Maria Luisa Spaziani, mentre quelli di Niki Rebecca Papagheorghiou sono della sognante Alexia Sarantopoulou. Quest’ultima, accompagnandosi alla chitarra con voce melodiosa sulle tracce della divina Melina Mercouri interpreta “Fedra” di Mikis Theodorakis, come fosse un blues dell’anima (“Stella mia, luna mia, mio ramoscello di primavera tornerò di nuovo vicino a te, tornerò vicino a te un’aurora per darti un bacio e tu me ne dia indietro un altro…”) .
Sono le parole poetiche a indicare la direzione, in questo caso partendo da “Il sogno creatore”, magnifica guida della spagnola Maria Zambrano (1904-1991) studiosa appassionata che come pensatrice guarda a figure letterarie e miti come Antigone, aspirando una sintesi tra il cuore e la ragione: tra poesia e filosofia (ad interpretarla sarà in futuro l’eccellente Monica Demuru). D’altra parte, queste due materie, proprio nel caso della prolifica studiosa e scrittrice, che fu allieva di Ortega y Gasset, sono imprenscindibili, facce diverse di una sensibilità unica. In “Filosofia y poesia” del 1939 rivendicò infatti un metodo ispirato appunto dalla poesia e dalla mistica (“la ragione poetica”) tale da aprire sentieri alternativi alla filosofia occidentale: “E tutti questi mondi, prima ancora che di leggi, di ragioni o di altre cose pratiche, hanno bisogno della poesia, che sa capire le cose schiave, ascoltare la loro voce e avvicinare la loro immagine fuggevole”.
Unire gli opposti, questo il sogno divino di Zambrano che può essere possibile solo se si apprende il concetto di misericordia che “con la nostra speranza e il nostro amore arriviamo a partecipare della creazione, anticipando la verità nei sogni, sognando verità che non sono ancora vere, dando il nostro aiuto perché dal mistero la verità si sprigioni”. I sogni dunque. Quelli che popolano le nostre notti e di cui spesso dimentichiamo i contorni, mentre altri li portiamo incisi dentro il cuore per i loro poteri talismanici. Sogni e sognatori. I primi per Maria Zambrano guidano le parole, i secondi (Don Chisciotte, Proust...) con le loro azioni iniziatiche danno legittimità agli altri.
Leggere e raccontare i sogni per capire le nostre vite. E’ possibile tornare ad un’arte antica come quella divinatoria (oniromanzia) legata al mondo della psiche, le sue avventure e i suoi viaggi? Forse si se leghiamo e intrecciamo anche tre diversi modi di poetare. Scrivere poesia partendo dai sogni. Oltre a Zambrano ovviamente, hanno un posto di protagoniste di questo “Sogno creatore” di Bluemotion appunto l’italiana Maria Luisa Spaziani e la greca Niki Rebecca Papagheorghiou. De Fanti e Sarantopoulou sono bagnanti in costume, tra sdrai e ombrelloni, in una improbabile spiaggia notturna d’agosto che ricorda un frame rubato a “Tango glaciale” dei Falso Movimento, con la regia di Mario Martone (1982 lo spettacolo, 1984 il film). Anch’esse venute fuori da un sogno postmoderno dove la poesia suggerisce e allude come nelle nuvolette di bande dessinèe. Surreali e cinematografiche figure capitate per caso davanti a un tempio di migliaia di anni fa. Esorcizzano il tempo, dando vita a piccole danze e, coup de theatre, gettandosi l’acqua addosso, per gioco, dentro una piscina mimetizzata tra le antiche pietre.
En attendant… Maria. Sono creature di un sogno loro stesse o una proiezione dei propri desideri? Secondo Zambrano “entrare nel sonno è entrare nel dominio del sogno o, meglio, attraverso il sogno, in un luogo sotterraneo, in una grotta – “Ypnos” -; ritornare a non essere visto; cadere nel grembo della vita madre che tutto consente; smettere di prender parte al gioco imposto dalla realtà, quello in cui si paga pegno, per giocare a un gioco proprio, gratuito, nel quale non esistono né leggi né frontiere, nel quale, come diceva Eraclito, si vive in un mondo privato, in cui non c’è da rispondere perché non c’è da domandare». (Carlo Ferrucci, curatore di edizione in italiano di “Sogno creatore” per le edizioni SE, 2022).
Candidata al Premio Nobel più di una volta, Maria Luisa Spaziani, è tra le voci più importanti della letteratura contemporanea. Intellettuale di vasti interessi ha sempre esposto in modo netto i propri punti di vista, anche quelli più politici. “I governi – dice- sono sempre stati contrari alla poesia, perché la poesia li porta lontano dall’idea della forza del potere. La poesia non chiede niente. La poesia è una magia, se si vuole però molto superiore alla magia perché questa chiede qualcosa in cambio. La poesia invece non chiede niente La poesia è puro disinteresse. E’ puro spirito”.
Poetessa di talento Maria Luisa Spaziani maneggia le parole e i concetti con abilità di tessitrice di trame: è profonda e regala sapienza. E i suoi versi scorrono imitando l’acqua di torrente: freschi, impetuosi e liberi. Come in “A sipario abbassato”. “Quando ti amavo sognavo i tuoi sogni,/ti guardavo le palpebre dormire,/le ciglia in lieve tremito./Talvolta/è a sipario abbassato che si snoda/ con inauditi attori e luminarie/la meraviglia.”
E’ praticamente sconosciuta in Italia ma l’opera letteraria di Niki Rebecca Papageorgiou è di immenso valore. La poetessa, scomparsa venti anni fa, è una delle voci più interessanti delle ultime generazioni. Laureatasi nel 1970 in Storia e Archeologia all’università di Atene, in attesa di poter insegnare apre un negozio di antiquariato e commercia piccoli oggetti. Tra il 1972 e il 1986 scrive la sua prima raccolta di poesie “Little Proses”. Ha una vita difficile e tenta il suicidio più volte. Più di trenta anni fa un’amica, Monika Zanolin, andrà a farle visita nella casa dove abitava in solitudine tra i ricordi e la filmerà. Un film ritratto della poetessa dove Niki parla di se stessa e legge anche qualche componimento inedito in cui emerge la grazia e la profondità di una letterata che ha lasciato versi preziosi come questi.
“Ci sono delle persone oscure che possono far scomparire per sempre il tuo nome dalla tua porta./ I tuoi amici verranno e non sapranno come trovarti./Ci sono delle persone oscure che possono far scomparire non solo il tuo nome, ma anche te stessa,/ mandarti per sempre in alto sul Tibet,/ dove da sempre vaga il nostro simile./ Mandarti nelle profondità dell’Africa/ con gli insetti sconosciuti e le piante carnivore./E per questo dico io “vieni a casa mia”,/ dove ho dato nomi finti, cataloghi infiniti,/ scritti sulla porta./E io ho abitato così tanto in posti isolati /che è impossibile che l’incantesimo abbia ancora effetto su di me./Vieni ad accendere con me strane lampade,/ con frange di cristallo colorate di perle dentro la luce perse./ Così non ci troveranno mai./
Sotto la loro luce /a te solo ho detto il mio nome.”
Devi fare login per commentare
Login