Teatro
Nuova stagione, vecchi difetti: pronti a lavorare gratis?
Io al teatro ci credo. Seduto in sala mi commuovo, piango e rido, mi lascio emozionare. Sospendo, come diceva Coleridge, la mia incredulità e sto a sentire un signore vestito strano che dice parole arcane. Ma poi, come sosteneva Agostino Lombardo, sospendo anche la sospensione di quella incredulità, e vivo semplicemente quel che vedo, che sento: credo a quel frammento di verità, unica e umana, che ogni spettacolo – anche il più brutto – porta con sé. Questa è la mia laica, laicissima, professione di fede.
Per una simile fede, rischio, ogni sera, la vita: sembra troppo? Ma no, non è cosi. Si tratta, infatti, non di rischiarla “materialmente”, come uno 007 in missione, quanto di mettersi in gioco totalmente, portando allo scoperto le convinzioni, le certezze, le credenze di cui ciascuno di noi è impastato. Lasciarsi scuotere, manipolare, cambiare consapevolmente: ecco cosa fa, o può fare, il teatro. Quanto meno nella mia utopia. Dunque, a questo gioco siamo disposti, noi spettatori, a giocare. Ci scopriamo: abbassiamo le difese. «Sopportiamo – come scriveva Cesare Garboli – la rivelazione di esistere solo intervalli, in rari, misteriosi momenti. Il teatro è uno di questi momenti». Siamo pronti, anche, ad essere raccontati per come vorremmo non essere: pensiamo, o speriamo, di essere migliori dei protagonisti di quel racconto cui assistiamo o che ascoltiamo. Spesso e volentieri non è così: e ci scopriamo ancora più meschini, pavidi, impauriti, deboli di quanto vorremmo essere. Vale la pena? Forse sì. Il teatro, qua e là, ci insegna a vivere.
Allora, ad esempio, ci coglie in fragranza di hybris, quando facciamo il passo più lungo della gamba; oppure travolti da insana gelosia; oppure disperate vittime di tradimenti che non riusciamo a razionalizzare; oppure ancora ambiziosi come non mai. Siamo mediocri e prevedibili, sbagliati comprimari della commedia umana. Siamo noi, quei cosetti che si agitano sul palcoscenico.
E loro?
Ecco, siamo in apertura di una nuova stagione teatrale, e il mio pensiero va – come spesso accade ultimamente – a loro: gli attori e le attrici, che su quel palcoscenico stanno. Loro cosa sopportano?
L’anno teatrale che si apre appare più confuso e faticoso che mai. L’abbiamo chiuso alla luce di ricorsi contro decreti traballanti, di bandi in ritardo, di finanziamenti che non arrivano, di sentenze e contro-sentenze. L’abbiamo chiuso con sincera preoccupazione per quel che è il futuro ma con tante soddisfazioni per la creatività che abbiamo visto in scena. Il teatro esiste, è là: resiste. Ma fino a che punto?
La domanda, allora, è proprio questa: fino a che punto attrici, attori, tecnici, registi, drammaturghi (e tutti gli altri…) accetteranno compromessi pur di andare in scena? Fino a che punto potranno spingersi a chiedere o a pretendere, in questa stagione, politici, amministratori, direttori, agenti, produttori?
Gli attori e le attrici hanno (abbiamo) troppo spesso già rinunciato alle tutele sindacali, alla gravidanza, alla pensione. Hanno rinunciato a paghe decenti (non tutti…); a periodi di prova retribuiti, a quel minimo di qualità richiesta nell’accoglienza in camerino. Si sono adattati a tutto pur di andare in scena. In questa situazione, in simili condizioni, il primo che offre cento lire prende tutto. Anche perché se pure qualcuno ha la forza di dire uno sdegnato “no”, si troverà subito un altro – magari meno bravo, ma che importa? – pronto a dire “sì”.
Insomma: come si sta facendo la stagione 2016/2017?
Anche per questo a me fanno un po’ sorridere – lo dico apertamente – quanti sbandierano dati di “incredibile” successo. Abbiamo avuto resoconti da festival estivi che raccontavano di prime, debutti, affluenze, esauriti. Successi meritati, per carità: e giustamente rivendicati.
Ma tra chi e per chi? E soprattutto a spese di chi?
Si può fare un festival, un programma, un cartellone senza pagare o sottopagando gli attori che gli danno vita? Non avvertite anche voi un sentore di lieve, lievissima, presa per il culo?
Viene da chiedersi come siamo arrivati a tutto questo. È una catena di sant’antonio al contrario, ossia invece di portare soldi, li toglie. Lo Stato non paga, la Regione non paga, il Comune non paga, il teatro non paga… e a restare senza soldi sono quelli in fondo alla catena.
L’altra sera abbiamo visto i rutilanti Premi Le Maschere del Teatro. C’erano tutti, più o meno, a festeggiarsi. Complimenti sinceri ai vincitori: eppure, mi chiedo, che resta da festeggiare?
“Bambole non c’è una lira”, verrebbe da dire allegramente, evocando il varietà. Ma a me pare di rivedere il conte Ugo Mascetti, in Amici miei, che portava il “rinforzino per la cena”…
(La bella immagine di copertina, di Guido Mencari è tratta dal Giulio Cesare-Pezzi staccati di Romeo Castellucci, e non è in alcun modo correlata a quanto ho scritto nell’articolo, se non per la forte suggestione che dà)
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