Teatro
Nuova drammaturgia a Pontedera
Sempre inseguendo le tracce di una possibile nuova drammaturgia italiana, sono sbarcato a Pontedera – da anni, si sa, una tappa necessaria per chi si occupa di ricerca – andando incontro a due testi che, sulla carta, suonavano piuttosto interessanti. Devo dire che le aspettative non sono andate deluse.
È interessante seguire l’apertura, per tappe successive, di un solido monolite come il Teatro Era: guidata da Roberto Bacci e Luca Dini, la struttura sta dando sempre più spazio – anche e soprattutto produttivo – a gruppi e artisti della nuova scena italiana. Investendo e investigando, come è prassi del gruppo toscano, anche i margini di una scrittura costantemente in divenire.
Due i lavori in cartellone, diversi per impianto e esito. Ne diamo conto volentieri, proprio perché frutto di una sostanziale e sana commissione (altri direbbero “scommessa”) su autori italiani.
Il primo è Perché non ballate?, che Gabriele Di Luca ha riscritto partendo dalle mille suggestioni possibili che emanano dai racconti di Raymond Carver, con la regia di Anna Stigsgaard. È intrigante notare come ci si rapporti al mito e all’immaginario americano: la nostra cultura, diceva una volta Jack Lang, è “nazional-americana”, ovvero talmente intrisa di americanismo da esserne mutata profondamente, addirittura geneticamente. Stigsgaard, fortunatamente, non affonda nella palude del cliché, tiene anzi le redini di un percorso che non esclude momenti di rarefatta astrazione; ben sospinta, in questo, dalla scrittura nervosa, pratica, “neo-realista” (occorrerà una nuova definizione per parlare di questo autore-attore-regista della compagnia Carrozzeria Orfeo) che Di Luca mette in campo. Una drammaturgia, la sua, che mescola piani narrativi e temporali, gioca in un carillon amaro in cui storie d’amore e di alcol di coppie allo sbando si sovrappongono e si sostituiscono; slittano continuamente per poi ritrovarsi, in una spirale che affascina. Il lavoro si avvale di una buona coppia di attori maschili, Michele Altamura e Roberto Capaldo, ma cede un po’ nella protagonista femminile, forse ancora acerba per un ruolo troppo impegnativo (prima giovane, poi anziana).
L’esito è ancora da far crescere, da limare, proprio perché Carver (e dunque Di Luca) richiedono un “minimalismo” tutt’altro che semplicistico – ma questo, si sa, è il guaio che rende complicati tanti testi che vengono da oltreoceano: non possiamo trattarli come classici, nemmeno come sit com tv, ed è la via di mezzo che spesso ancora ci manca.
Decisamente più strutturato, e complesso, il percorso che Roberto Bacci ha fatto su Alla Luce, testo del bravo Michele Santeramo. Intanto, com’è prassi del regista, si inventa uno spazio: che è una fenditura del grande palcoscenico del teatro, una camera rettangolare ristretta da pesanti tende nere che racchiude pubblico e attori. Un clima soffocante, dunque, senza riferimenti o appigli. Un tavolino, e poco altro a riempire questo spazio. Poi gli attori: strani, nei loro abiti appena definiti, una coppia elegante, due fratelli più sciatti, e un croupier-mago-imbonitore che è un po’ Cotrone, certo, in questa storia di mezze verità e apparenti visioni.
Il fatto è che tutti sono ciechi (e forse anche il croupier, che ha in mano il loro destino, lo è) e sono là per giocarsi – in una sfida senza esclusione di colpi – il bene per loro più prezioso: la vista. Chi vince, tornerà a vedere. Si gioca con carte (bellissimi i disegni di Cristina Gardumi), e forse si bluffa, ma poco importa. La questione qui è altra, ovviamente metaforica. Non so quanto Santeramo si sia ispirato a Cecità, di Saramago, romanzo che già possedeva tutte le derive filosofico-esistenziali di questo gioco (e anche di più). Di fatto, però, bastano poche battute, qualche gesto, per essere imprigionati in quel clima asfissiante, cupo, anche volgare. Bravi, loro, a tenere le tensioni sottili di un essere e apparire, di un mascheramento e svelamento che lascia intendere più che dire. In scena, si notano certo Sebastian Barbalan (inquieto e fastidiosamente sottile croupier) e la straordinaria Silvia Pasello (una figura sempre sospesa, in febbrile ma rassegnata attesa, consapevole di sé e del proprio destino). Ma tutti hanno momenti di grande forza: Michele Cipriani, Francesco Puleo, Tazio Torrini. Vale la pena recuperare la vista? Siamo pronti, davvero, a vedere? A tornare alla luce?
Dubbi pirandelliani, più che amletici, ma ancora e sempre imbarazzanti nella loro irrisolutezza. Roberto Bacci guida bene il gioco, tesse questo affresco con grande nitore, senza aggiungere e senza strafare, semmai sottraendo, portando al nero, al buio più assoluto e spaventoso, anche gli spettatori. Finito lo spettacolo, almeno alla replica cui ho assistito, c’è stato un denso silenzio del pubblico, lunghi minuti sospesi, senza che nessuno si muovesse o applaudesse: una tensione strana, viva, pulsante. Un’attesa che era fragorosa consapevolezza: forse amarezza.
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