Ambiente

Nuova Danza, differenze ai margini del terzo paesaggio

7 Febbraio 2019

Si va verso una Nuova Danza. Non ancora definita perfettamente in termini di drammaturgia e linguaggi, ma gravida di interessanti segni evolutivi, la scena contemporanea italiana sta mutando pelle regalando inedite emozioni e talenti. Questi ultimi, rafforzando uno schieramento già importante in termini di professione e narrazione, si affiancano a quelli che sono stati i pionieri nel periodo tra gli Ottanta e i Novanta, e nell’epoca successiva protagonisti della nascita di un’arte spettacolare di segno alto, capace di confrontarsi a livello internazionale. Il fenomeno è in crescita _ parallelamente anche di pubblico_ , e contribuisce a un panorama ricco di idee, con un’offerta per qualche verso ancora acerba ma adulta per gli stimoli innescati. Così come si è visto e verificato anche in occasione della ventiquattresima edizione di “Autunno Danza” festival di Cagliari diretto da Momi Falchi e Tore Muroni con una quindicina di eventi spettacolari, workshop e incontri tra i mesi di ottobre a dicembre.

Riprendendo concetti guida di un grande paesaggista contemporaneo, il francese Gilles Clèment, due studiosi molto attenti alle evoluzioni della danza in Italia, come Fabio Acca e Alessandro Pontremoli hanno tratto una convincente lettura dello stato attuale della danza tricolore, studiandone anche le possibili vie di fuga. Acca lo ha raccontato nel maggio del 2017, nell’ambito del convegno allestito dal Teatro Akropolis a Genova e dedicato alla scena contemporanea italiana dopo Ivrea (oggi rintracciabile su “Ivrea Cinquanta”, il volume che ne raccoglie gli atti pubblicato da Akropolis), mentre Pontremoli lo ha fatto nell’imperdibile saggio “La danza 2.0” , pubblicato di recente da Laterza, offrendo un fermo immagine ad alta definizione.

Ana Pi in “Le Tour du Monde des Danses Urbaines en 10 Villes” (foto Jean Benoit)

Acca, parafrasando Clèment, ha parlato di “terzo territorio della danza” o “terzo paesaggio della danza”. Questo si sarebbe formato “come “residuo” di una scena ufficiale che tutela la tradizione (primo paesaggio) in virtù della “spinta all’innovazione istituzionalizzata (il secondo paesaggio)”. “Residuo” quindi come esito di indipendenza, non tanto come frutto di un antagonismo, quanto “dell’indecisione o incapacità o disinteresse a prendere in carico da parte degli altri due paesaggi”. Mutuando sempre Clément, Acca afferma che appartengono “a uno spazio che non esprime né il potere né la sottomissione al potere” ma hanno in comune la “differenza rispetto a paesaggi protetti, riconosciuti e riconoscibili della danza”. Insomma uno spazio dove si coltiva la diversità e si confrontano le differenze. Dettagliata la disanima di Pontremoli che definisce il primo paesaggio come quello museale, “luogo di conservazione e archiviazione vivente del passato”: cioè il balletto classico e accademico come i “processi di repertorizzazione o rimessa in azione di alcuni lavori avanguardistici del Novecento, opera finalizzata alla trasmissione”. Il secondo paesaggio o terra di mezzo, per lo studioso è quel luogo dove “convivono nuovo o meno nuovo, in cui i linguaggi conosciuti e leggibili anche da un pubblico relativamente ampio creano nuove suggestioni”.

Un’immagine di “Tango Glaciale reloaded” , regia di Mario Martone (foto di Mario Spada)

Un luogo questo caratterizzato dall’eclettismo di stili e tecniche. Territorio di incognite dove si cerca di “mettere alla prova confini e baluardi” è invece il terzo paesaggio. Luogo di danza d’autore, non-danza, post-danza dialettica tra performance e danza. Ancora citando l’architetto francese è “una frazione “indecisa” del “giardino planetario” in cui si raccoglie la diversità”. La “terzietà” di questi spazi è tale “che non esprime né potere né sottomissione al potere”. Sono cioè dei non luoghi o meglio radure, anfratti o rifugi in cui si sta ai margini, dove i gruppi di danzatori, come racconta meglio Pontremoli nel suo libro, stanno sperimentando nuove linee e processi creativi. “Autunno danza” di tutto questo magmatico ribollire ne ha registrato in grande parte come un sismografo i movimenti e le scosse, distribuendoli all’interno di un cartello ampio e ricco, con una forte attenzione rivolta proprio all’evoluzione contemporanea della danza tricolore, senza dimenticare spettacolarità e ospitalità internazionale. Vedi “Le Tour du Monde des danses urbaines en 10 villes” di Anna Pi, Cecilia Bengolea e Francois Chaignaud (Francia) e il butoh di Gyohei Zaitsu con il suo “Enfin comme une fleur”. Come di peso è l’attenzione riservata proprio a quella parte dedicata alla “repertorizzazione” di capolavori del recente passato. Un’opera preziosa quella di far conoscere, soprattutto alle nuove generazioni, episodi fondanti del contemporaneo, allestiti di nuovo all’interno del progetto RIC.CI, ideato dal critico Marinella Guatterini. E’ il caso di uno spettacolo di culto come “Tango Glaciale reloaded” dei napoletani Falso Movimento con la regia di Mario Martone, che debuttò più di 35 anni fa e ora, come è successo a Cagliari, tornato di nuovo in scena nei teatri di mezza Italia. Allora segnò un’epoca e fu l’evento guida per antonomasia della Nuova Spettacolarità, per alcuni addirittura rivoluzionario per l’intelligenza posta nel mettere assieme arti e linguaggi differenti. Dal mondo dei comics al cinema, musica in primo piano e una recitazione danzata degli attori tale da influenzare gruppi e performers nelle stagioni a venire.

Un momento della coreografia “Trigger” con la coreografa in scena Annamaria Ajmone

“Tango Glaciale reloaded”, riallestito ora da Raffaele Di Florio e Anna Redi con la supervisione di Mario Martone nel suo remake è assolutamente filologico, con una precisione addirittura imbarazzante per quanto è millimetrica. Sono cambiate le tecniche e il digitale oggi ha semplificato il tutto togliendo un po’ di poesia e batticuore rendendo tutto più “friendly”, cancellando cioè il primitivo bricolage di quelle invenzioni geniali che il Falso Movimento aveva cucito assieme al suo esordio. Sulla scena, stavolta danzatori veri (i bravi Giulia Odetto, Filippo Porro e Josef Gjura) e non attori-danzatori (allora furono gli indimenticabili Licia Maglietta, Tomas Arana e Andrea Renzi) per uno spettacolo che in fondo è un flusso ininterrotto di immagini danzate ed emozioni da celluloide diventate nuova forma teatrale. Che oggi come allora sono in grado di incantare e far scattare la magia di nuova lanterna magica.

Ad aprire quella che è stata invece la parte più densa di eventi della rassegna, una galleria aperta di tendenze e fermenti della Nuova Danza, è il singolare “Trigger”, atto danzato di Annamaria Ajmone che si muove con tecnica impeccabile. Non una vera coreografia, piuttosto una danza che riflette su se stessa, ridefinendo continuamente e in modo quasi ossessivo lo spazio interno ed esterno del quadrato dove siedono gli spettatori. Ajmone disegna geometricamente gli angoli, i lati e i volumi di quel parallelepipedo ideale, marcando confini che vengono volta per volta smontati in un gioco a sottrarre. Luoghi abitati per un attimo, da catalogare pubblicamente come terre di conquista.

Francesca Foscarini e Andrea Costanzo Martini in “Vocazione all’Asimmetria”

La geometria è richiamata nel titolo, “Vocazione all’assimetria”, ma l’autrice Francesca Foscarini  coreografa e danzatrice di carattere, elegante e raffinata, quanto flessuosa e liquida nel movimento va piuttosto dritta al cuore in un gioco teatrale di fresca energia. Assieme al compagno in scena, il bravo danzatore Andrea Costanzo Martini, _ apprezzato anche al festival di Genova “Testimonianze” con il suo provocante e ironico solo “What Happened in Torino” _ trova la complicità degli spettatori in una sfida sempre sul filo. Luce e buio. Ad occhi chiusi si ascolta meglio il suono, e si intuisce il movimento in accelerazione dei due danzatori impegnati a misurare velocemente il quadrato al centro della sala come fosse un ring. Ordine e caos. Ad occhi aperti invece si viene catturati dal seducente e rocambolesco incastro di fughe e di stop improvvisi a due millimetri dal volto. Stop and go in una spirale che fa venire le vertigini, sfidando la gravità.

Igor e Moreno in “A Room For All Tomorrows” (foto Laura Farneti)

In un altro gioco a rincorrersi, il duo di Igor Urzelai e Moreno Solinas in “A Room for All our Tomorrows” scandaglia il tempo di una giornata, dilapidando disordinatamente energie, movimenti spesso scoordinati e un mare di caffè, che zampillando da una macchinetta collocata su di un tavolo finisce in rigagnoli sul palcoscenico. Ma è davvero un tavolo delle meraviglie che oltre all’espresso offre pure i suoni di una pianola spuntata per magia da una delle sue estremità. Mentre nell’aria si diffonde il profumo di miscela bruciacchiata di Arabica, i due danzatori mettono in scena la difficoltà del comunicare. Nei piccoli gesti quotidiani, a partire dal primo mattino, si leggono già i segni delle crisi, ma anche la voglia di uscirne per ritrovarsi e scambiarsi un bacio appassionato. Il tutto a suggello di un tripudio disordinato e un po’ snob, assolutamente british, di contact, improvvisazione e ripetizione ma anche una tenera e rilassata ironia che alla fine riscatta i vocalizzi urlati (e ahimè stonati) lanciati sopra le righe nella iniziale e un po’ confusa ouverture.

Alessandro Sciarroni in “Chroma-Don’t Be Frightened of Turning The Page”

E’ un corpo che ruota fino allo stordimento, ipnotizza e lascia lievitare sentimenti quello di Alessandro Sciarroni in “Chroma….Don’t Be Frightened”. Un “turning” continuo e insistente sempre sull’orlo della caduta in un equilibrio armonico che evoca pace ed armonia, distacco terreno e voglia di cambiamento. Sciarroni è un grande della danza contemporanea, performer e coreografo, studioso di percezione e pratiche del corpo. Giusto e sacrosanto il riconoscimento prestigioso annunciato solo pochi giorni fa: il Leone d’oro alla carriera per la danza che riceverà il 21 giugno alla prossima Biennale di Venezia. Alessandro Sciarroni _ così recita la motivazione del Premio _“è un coreografo italiano che crea in risonanza con l’arte della performance. È il direttore d’orchestra dei danzatori e di tutti coloro che, provenienti da diverse discipline, invita a partecipare ai suoi progetti. Costruisce dei concentrati di vita al limite dell’ossessione disponendoli attorno a eventi scelti delle nostre vite fragili e ordinarie. Mette in scena i nostri corpi quotidiani in uno spazio che amplifica l’insistenza a trovare la falla che ci addolcirà e solleverà”.

“No Confort Zone” spettacolo di Sara Marasso e Stefano Risso (foto Laura Farneti

E’ all’insegna della grazia e della rotondità dei gesti delle danzatrici “No Confort Zone” di Sara Marasso con la presenza complice di Stefano Risso, al contrabbasso e al live electronics. Coprodotto da Lavanderia a Vapore e la compagnia portoghese Vo’Arte Espaco Rural das Arte Soudos è un intreccio di rara perfezione tra corpi che danzano e note musicali. Quelle del meraviglioso quartetto d’archi di Beethoven numero 14, Opera 131 in mi minore eseguito dall’Alban Berg Quartet che accompagnano con grazia le evoluzioni e i gesti danzati in chiaroscuro. Note avvolgenti e talora struggenti, intrise di una umanità profonda che la danza in gioco armonico perfetto restituisce in un alternarsi leggero e senza alcuna sbavatura. Una sintesi poetica che unisce gli estremi, smorza i contrasti accarezzando di compassione il mondo.

“La Morte e la Fanciulla” di Michele Abbondanza e Antonella Bertoni (foto di Simone Cargnoni)

E’ un altro capolavoro musicale, il quartetto d’archi in re minore “La morte e la Fanciulla” (“Der Tod und das Madchen”) di Franz Schubert, alla base dello spettacolo straordinario e dal titolo omonimo della coppia Michele Abbondanza e Antonella Bertoni, autori di coreografia e regia, un atto unico di totale e disarmante poesia che unisce in sé pulsioni di sesso e morte. Eros e Thanatos in una linea dura, sfiorata, tentata e attraversata da tre danzatrici di talento (Eleonora Chiocchini, Valentina Dal Mas e Claudia Rossi Valli). Il racconto, impreziosito dai testi poetici di Matthias Claudius è multimediale con la presenza in scena delle immagini in diretta e registrate di un video che riprende le performers nude al centro di un vortice passionale, inghiottite dalle nebbie, eleganti figure come dentro un un velo avvolte dalla stessa materia impalpabile dei sogni. Tre Grazie colte nel veloce e fulminante passaggio verso l’eternità e l’ignoto in una sinistra e romantica partitura definita con precisione certosina. Si toccano, si sfiorano, danzano leggere in un continuo gioco di specchi e rispecchiamenti con il video e le immagini registrate. Il rapporto con la musica è stretto, unisce gesto a nota, movimento a fraseggio per dissolversi mentre la nebbia si dirada.

“Carte d’imbarco” di Carovana Smi al festival “Autunno danza” di Cagliari (foto di Laura Farneti)

A chiudere infine il ciclo, allestito da Spaziodanza, è “Carte d’imbarco” di Carovana S.M.I. diretto dalla coreografa Ornella D’Agostino. Helzapoppin nel segno del meticciato, politicamente prende posizione sul tema della migrazione. Un atto d’amore verso il mondo, rutilante di colori e popolato di bei volti. In una sala d’attesa si mescolano storie e canzoni, danze profumate d’etnia in un caotico ed esaltante potlach dove tutti danno e ricevono qualcosa dentro un interscambio solidale e necessario. In modo semplice ma efficace il racconto si dipana per farsi collettivo, fiume in piena che corre verso il mare. L’Asia incontra l’Africa, l’Africa incontra l’Europa in un girevole scambio di emozioni e incontri tra gente reale che scappa dalle guerre e insegue un diverso futuro fatto di convivenza e rispetto. Da “Carte d’imbarco” si esce consapevoli, con il cuore più leggero per le emozioni regalate, fatte di una danza caotica, scoppiettante e imprevedibile, un turbinìo di suoni e ritmi, un’epifania di nuova e altra umanità.

Un momento di “Carte d’imbarco” di Carovana Smi, regia Ornella D’Agostino (Foto Laura Farneti)
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