Teatro
Non si uccidono così anche i talenti?
Certo è strano fare teatro a Roma. O anche solo vederlo. In questo autunno, ad esempio, c’è una frenesia di proposte che lascia storditi. Per chi può (economicamente) permetterselo, ci sarebbe da andare a teatro ogni sera. Sembra quasi di stare in una città europea.
Ma poi, a guardar bene, qualche dubbio, qualche domanda nasce.
La scena capitolina vive di contraddizioni, di entusiasmi e perplessità, di slanci e di fatica. E mai come in quest’inizio novembre le cose emergono in tutta la loro complessità. Io, poi, che son vecchietto, faccio fatica ad adattarmi a certe conclamate modalità originali e innovative. Per me, ad esempio, è strano che uno spettacolo veda il confronto con il pubblico solo per poche o pochissime serate. Meglio di niente, direte voi. Vero, ma come è possibile, mi chiedo, sprecare tanto talento?
Immagino mesi di prova, di investimenti, di studio, e poi zac, dopo due sere devi smontare tutto e aspettare chissà quale altra occasione, per avere un’altra replica, dopo mesi.
Invece uno spettacolo – così mi avevano insegnato – deve crescere, deve respirare, deve maturare proprio nel confronto con lo spettatore. Ci vogliono giornate di repliche, passate a pestare il palco coi piedi e a incontrare gli occhi della platea, per dare vita ad uno spettacolo. Al contrario, accade che un artista, magari giovane, investa tutto e debba giocarsi tutto in un colpo: invita parenti e amici, riesce a riempire la sala per quelle due sere (i famosi sold out che appaiono sui social), e in cuor suo si glorifica per il consenso ricevuto pensando: finalmente ce l’ho fatta! E invece, niente: il giorno dopo, tutto daccapo.
Pare un po’ tutto usa e getta, no?
Il guaio è che questi spettacoli sono diventati eventi facebook. E io, che son vecchietto, cerco pure di stare attento, di seguire tutto e tutti, ma come si fa? Pensa uno spettatore qualsiasi: che confusione. Questo fiorir di proposte potrebbe essere scambiato per vitalità, e in gran parte lo è, ma al tempo stesso è frutto della tirannia inesorabile del dio mercato.
Il fatto è, invero, che in autunno qui a Roma, ma non solo qui, ci si scatena. Per carità, ne siamo felicissimi, ma forse un’offerta così disparata e numerosa rischia di essere superiore alla domanda. E non è un caso se poi, esauriti parenti e amici, arrivino i “forni”. E nel frattempo l’artista, magari giovane, si è “bruciato” la piazza.
Vale la pena tanto sfruttamento del nuovo talento? Me lo domando ogni volta, seduto in platea vedendo il coraggioso impegno di chi sta in scena.
D’altronde, mi rispondo, i programmatori fanno il loro mestiere e dobbiamo esser loro grati: infoltiscono cartelloni con le novità. Danno spazio ai giovani.
Però la sensazione è di stare da Feltrinelli: passi, e trovi tutto quel che è appena uscito. È un reale investimento sul futuro? Non so, personalmente non credo, ma – dicono giustamente i programmatori – quantomeno è una possibilità di esistenza. In questa frenesia per gli “under”, poi, quel che rimane fuori dal gioco è il diffusissimo “over”: ossia i fratelli maggiori, i più grandi, coloro che sono stati oggetto di “incoraggiamento”, sbattuti sotto i riflettori magari solo una o due stagioni fa e che oggi si trovano sempre più a spasso. Che ne facciamo di tutto quel bacino di artisti immessi forzatamente e anzitempo sul “mercato”, sfruttati, spremuti e poi buttati? Ce ne sono, credetemi. E non sanno dove sbattere la testa.
L’altro guaio, poi, è quello degli spazi. E qua, a Roma intendo, le cose si fanno ancora più confuse. Sul Palatino giganteggia ancora l’ecomostro, l’impalcatura di un musical che doveva essere un grande successo estivo ed è stato un mezzo scandalo. Mollato là, tra le rovine, sembra ormai un memento mori, il palco sul lago del Gabbiano, sbattuto dal vento. Se quelle, per i nostri lungimiranti organizzatori, dovevano essere le “nuove forme”, il declamato binomio teatro-turismo (ormai ai teatranti si chiede sempre più di fare promozione turistica che nemmeno le apt), il business con lo spettacolo, l’apertura “international” di Roma, beh, siamo capitati male.
Allora che succede: che a Roma ci sono tanti spazi, ma ce ne sono sempre pochi. Alcuni sono stati chiusi. Come il compianto Valle: va detto – a merito di questa Giunta – che finalmente i lavori sono iniziati e procedono, e anzi l’assessore Bergamo che si è da subito preso a cuore la questione, ha dichiarato al Corriere che intanto apre il foyer e poi la fase viva del teatro «se tutto procede come ci auguriamo, inizierà dai primi di febbraio 2018 per poi arrivare, all’incirca dopo un anno, all’avvio della seconda fase in cui si affronterà la vera e propria ristrutturazione straordinaria e infine, nella terza fase, si passa al restauro dell’edificio». Aspetteremo fiduciosi: qualcosa si muove e sembra un miracolo.
Sembra essersi risolta anche la questione Teatri in Comune (gli ex teatri di cintura), oggi finalmente assegnati a bando e ripartiti con le attività.
Di altri spazi non si capisce la sorte: tipo l’Orologio (stiamo risolvendo, dice ancora Bergamo nella stessa intervista, facendo capire però che la questione non dipende dal Comune) o il combattivo Rialto, serrato con lucchetto. Ma non sono pochi a essere minacciati dalla spada di Damocle della chiusura.
Molti altri lavorano a fatica, o fanno “affittacamere” oppure ancora stentano a decollare, come il Palladium, dove sono tornato dopo anni, per due bei lavori andati in scena però davanti a una mezza sala infreddolita. Se ne aprono di nuovi: l’Off/Off, lo spazio AP accademia popolare dell’Antimafia e dei diritti, e alcuni spazi come Carrozzerie Not si sono guadagnati sul campo la visibilità e il rispetto.
La cosa curiosa, però, è che i tanti festival attivi e concomitanti di questo autunno convergono tutti sugli stessi spazi: al teatro Vascello, al Vittoria, il Brancaccino, anche all’Argentina o a all’India, la seconda sala del teatro di Roma, attiva all’inverosimile.
Nel bailamme che si crea, capita – a me capita – di sbagliare: vai al Vascello per un festival e scopri che lo spettacolo da vedere era da un’altra parte e in un altra manifestazione. Anche perché, in tutto ciò, sono iniziate anche le stagioni “regolari”, che premono da ogni dove. La qual cosa rischia, ma è solo una mia impressione, di rendere un po’ tutto uguale a tutto (fatti salvi, ovviamente, gli esiti scenici).
In tutto questo “polipaio”, come diceva Gadda, in questo brulicare di opere e artisti, si stende sempre l’ombra cupa del Bando.
Mentre festeggiamo l’approvazione della legge quadro di settore, fortemente voluta dal ministro Franceschini, il “bando”, a tutti i livelli, è diventato la prassi necessaria, è il concorso sistematico, è la regola fatta sistema. La qual cosa, non mi si fraintenda, in linea di principio potrebbe anche andare benissimo. Però non possiamo negare il fatto che la creazione artistica a fatica va a braccetto coi bandi. Ma ci si prova, al punto che anche gli artisti sembrano piegarsi sempre più alla stringente logica necessaria del bando: non fanno più o quasi quello in cui credono, ma fanno – sono spinti a fare – quel che è più opportuno per vincere il bando di turno. La mia è una generalizzazione, è chiaro: ci sono mille eccezioni e ci sono bandi che stimolano e liberano la creatività.
Però ormai la sensazione che si ha, è che tanti spettacoli nascano già formattati, nei tempi, nei modi, nei contenuti. Non possiamo negare, ad esempio, che il trend cresciuto a seguito di alcuni prestigiosi premi, come su tutti lo storico Premio Scenario, abbia connotato una prassi produttiva, basata sui 20 minuti, ormai diffusissima. E i bandi stanno facendo altrettanto.
Cosa fanno, allora i talenti? Si inquadrano, si compattano, si formattano, per quel pugno di repliche. Con il rischio che, intanto, si spengano.
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