Teatro
Nemmeno un minuto di non amore?
“Amarsi un po’, non è possibile”, cantava il poeta.
Passata l’euforia stucchevole di sanvalentino, con quei ristorantini affollati da coppiette illuminate dalle eterne candele a morto, resta ancora vivace la discussione sulla famiglia e sulla coppia. È interessante notare come il nostro paese confessionale sia maschiamente determinato: uomini e donne, in grazia di Dio, devono sposarsi! L’esito di questa odiosa discussione sui diritti civili è talmente incivile, da sembrar degna dello Stato della Chiesa e di PioIX: insomma, dal diritto civile al diritto canonico il passo ormai è breve.
Ma serve il “sacro” vincolo per amarsi? Come diceva Flaiano, una delle principali cause di divorzio è il matrimonio.
Avete capito qualcosa, voi, del matrimonio o della vita di coppia? Ci buttiamo in queste storie senza reticenze, come centometristi acceleriamo allo spasimo e orgogliosi tagliamo il traguardo. Ci troviamo sposati e alziamo le braccia al cielo: non si sa se in segno di vittoria o di resa, per non essere sparati.
Eppure iniziamo entusiasti la nuova vita, tutta coccole e meraviglie, ma in poco tempo ci troviamo a litigare per la lavatrice, a massacrarci di insulti o a rubarci i mobili. E anche per chi, come chi scrive, c’è l’aggravante della recidiva, il nodo resta irrisolto: cosa diavolo vorranno, le donne?
Alla ricerca di risposte, ho messo in fila due spettacoli che scavano implacabili come trivelle nelle dinamiche relazionali uomo-donna. Due affreschi, gelidi e ironici, due radiografie, due tac che mostrano l’inevitabile e crescente metastasi.
Il primo, al Piccolo Eliseo, è Some girl(s), scritto con il consueto cinismo da Neil Labute. Quando l’ho conosciuto, a Venezia in occasione della Biennale Teatro dove teneva un workshop, questo americanone geniale e pragmatico aveva una tshirt con su stampato occhialetti e pizzetto di Anton Cechov. E non era un caso: le sue pièce devono molto allo scrittore russo. Quel gusto di squarciare il sipario su esistenze marginali, di illuminare per un quarto d’ora vite sull’orlo del dramma, è molto cechoviano ed è molto caro allo sceneggiatore e drammaturgo Labute. Some girl(s) non fa eccezione.
Sembra quasi un esperimento in laboratorio, una reazione scatenata in provetta: alla vigilia del matrimonio, mettere un uomo sciatto e ambizioso a confronto con le donne del suo passato. Chi non ci ha pensato (io almeno ci ho pensato): rivederle tutte, reincontrarle, parlarci, provare a ricordare, a capire chi eravamo in quella fase della nostra vita, perché è finita, come è finita. E scusarsi. Scusarsi di tutto: delle parole non dette e di quelle dette, dei gesti, delle ripicche, delle incomprensioni. Scusarsi anche per loro.
Labute mette la ciliegina sulla torta: non basta la conclamata immaturità maschile, qua c’è il cinismo svelato. L’uomo registra gli incontri con le ex, a scopo – per così dire – di lucro: deve scriverci un racconto e intende usare le parole delle donne (ancora Cechov, no? non è Trigorin?).
Prodotto dal Teatro Bellini di Napoli, con la regia asciutta e incisiva di Marcello Cotugno, la pièce è interpretata bene da Gabriele Russo – il protagonista Guy con il sorrisetto candido e l’aria arruffata da bambino – e da quattro agguerrite e brave attrici: Laura Graziosi, Bianca Nappi, Roberta Spagnuolo e Martina Galletta.
Il testo è ovviamente ipermaschilista: la prospettiva è quella dell’uomo, quasi una soggettiva, che se pure ne esce sconfitto e umiliato continua a macinare nefandezze. Loro, le signore, sono compagne ancora legate, oppure seduttive virago, o ancora intellettuali nevrotiche o infine aspre schiacciasassi: rappresentano complessità, insomma, ben al di sopra delle piccole, meschine, dinamiche del campione maschile. Nelle note di regia, Cotugno rimanda a di Rohmer: è vero, c’è anche qui il gusto e il candore del “sediamoci e parliamone” del cineasta francese, ma vibra una zampata cattiva in più, il sapore sadico di raschiare fino al fondo del barile, di mostrare, senza pietà, l’ometto per quel che è.
L’altro lavoro è nientemeno che Gl’Innamorati del buon Carlo Goldoni, shakerato dalla curiosa drammaturgia di Fabrizio Sinisi e dalla regia di Gianpiero Borgia, anche in scena con Elena Cotugno.
L’originale del veneziano era del 1759, e conteneva in nuce – come sempre nella sapiente drammaturgia goldoniana – tutti i cupi e comici risvolti che Sinisi porta alla luce, riducendo a due i personaggi chiave.
Lui, Fulgenzio, è – per dirla ancora con Flaiano – “rassegnato a tutto”; lei, Eugenia, è bella e tosta come non poche “stronze” (mi si conceda) che abbiamo conosciuto e pure amato.
Così, nella riscrittura contemporanea e meridiana del giovane Sinisi, Goldoni assume i toni del Roland Barthes dei Frammenti di un discorso amoroso, diventa il tavolo autoptico per la dissezione di una relazione che compie tutta la parabola possibile, passando dal gioioso e generoso desiderarsi al feroce e livido offendersi. Le schermaglie, i sogni, le frustrazioni, le distanze abissali e l’improvvisa prossimità: si inseguono si intrecciano, si sfidano, si amano i due protagonisti di questa avventura quotidiana che è l’amore. Fino a che, esausti, si potranno sposare. So’ soddisfazioni, no?
Si ride, mentre brividi corrono lungo la schiena: siamo noi, là, macchiette dell’ennesima commediola farlocca che ci vede, sempre di nuovo, mesti protagonisti.
Elena Cotugno, bella e capricciosa, determinata e passionale, ha come contraltare un Gianpiero Borgia che si assume l’onere di dar vita anche agli altri personaggi in commedia (con esiti non sempre riuscitissimi) ma che gioca bene su uno “straniamento” interpretativo che è ludica e lucida follia.
Proprio nella dinamica dell’entrare e uscire dalla storia, nella metanarrazione intellettuale che diventa epica brechtiana, o rimando esplicito a Quartett di Heiner Müller, Gl’Innamorati dà il meglio di sé. Nella vertigine della mise-en-abyme, con i piani che si moltiplicano e si riverberano, tutto è offerto al pubblico, con un sorrisetto macabro.
Visto nell’ambito al Nuovo Abeliano, per la stagione dei Teatri di Bari, dalla platea, però, si avvertiva il desiderio di qualche ulteriore assestamento, e forse di qualche taglio, ad esempio nei rimandi espliciti alla Commedia dell’Arte. Prodotto dal Teatro dei Borgia (sono marito e moglie anche nella vita, Elena e Gianpiero), lo spettacolo ha il pregio assoluto di essere l’incontrovertibile dimostrazione di un assunto: alla fine, ridendo commossi di noi stessi, continuiamo a innamoraci senza ritegno.
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