Teatro
Nello Zoo della memoria
Anni fa ho avuto il piacere di fare una lunghissima intervista ad Arturo Cirillo, materiale che poi, assieme ad altri testi, diede vita a un libro sul percorso di questo regista e attore napoletano. Da allora ho cercato di seguire tutti i suoi spettacoli, ma non ce l’ho fatta (è ampia la sua produzione, fortunatamente) e lo ritrovo adesso con Lo zoo di Vetro in un Teatro India di Roma, stracolmo e con tanto di cuscini a terra aggiunti, per una tappa di una lunga e felice tournée con il celebre testo di Tennessee Williams.
E mi imbatto in un artista maturo, estremamente consapevole. Non che non lo fosse già: ché anzi Arturo ha sempre avuto una altissima meta-cognizione critica di quanto andava facendo. Mi sembra di poter dire, però, che sia entrato pienamente e lucidamente in un’altra fase della sua carriera. Che, ne sono certo, porterà ulteriori conferme e tante sorprese.
Si avverte, nel lavoro, un nitore di scrittura scenica e interpretativa che è ben incarnata anche dalle attrici in scena con Cirillo: Milvia Marigliano e Monica Piseddu.
Un disegno generale che è testimonianza diretta di una “non-scuola”, come quella del burbero maestro Carlo Cecchi – con cui Arturo Cirillo si è sostanzialmente formato dopo gli studi d’Accademia – ma che va oltre, verso piani di più scarna, essenziale e cupa, contemporaneità.
Quel tono livido, che ha sempre accompagnato le creazioni del regista, anche nei momenti di più farsesca identità, esplode in Williams con una ferocia inusitata: è un grumo di tensione, questo spettacolo, una corsa feroce – dall’inizio alla struggente fine – senza pietà, in un tempo rarefatto che si dilata e si sospende ma senza mai perdere la gravità amara, addirittura macabra, imposta dalla regia.
È chiaro quanto Arturo Cirillo ami il melodramma: e trova nella scrittura densa e struggente dell’americano un terreno fertile. I temi, infatti, in Zoo di vetro, come negli altri capolavori di Williams sono quelli di sempre, che hanno affascinato tanti, da Luchino Visconti a Pedro Almodovar. Li riassumeva bene il critico Roberto De Monticelli nel 1958: «la polemica contro l’intolleranza e l’ipocrisia di un certo “Mito americano”; il motivo della frustrazione femminile; e quello delle “liasons dangereuses” in campo maschile» (pur in un giudizio sostanzialmente negativo: un “drammone commerciale”, diceva parlando della Gatta, con Gino Cervi e Gabriele Ferzetti).
Il “drammone” affascina certo anche Cirillo, ma lui asciuga, astrae, demistifica, spezza continuamente i meccanismi immedesimativi, pur giocando con il realismo. Toglie ogni verosimiglianza scenografica: una striscia in terra, a mo’ di Dogville, a segnare l’interno e l’esterno della casa; casse e tecnica a vista; palcoscenico vuoto e pannelli sospesi in alto che si fanno cornici di altrettanti ritratti passati (la scena è di Dario Gessati). Lui stesso si ricava il doppio ruolo di attore e narratore (e di “tecnico”, azionando a vista il mixer audio), entrando e uscendo dalla vicenda, raccontandola o quasi “mostrandola” lucidamente al pubblico in un racconto di “quel che è stato”.
Poi crea un “quartetto d’archi” che modula interpretazioni diversissime ma complementari: il basso di Monica Piseddu, meravigliosa come sempre – le basta un piccolo cedimento fisico nel camminare per connotare la drammatica zoppia della giovane Laura -; poi la madre Amanda, affidata a una Milvia Marigliano in splendida forma, che svolazza acuta e vibrante come un violino estroso ed estroverso. E ancora Jim, cui dà presenza massiccia Edoardo Ribatto, che è contraltare reale, un impeto di concretezza che irrompe nel fragile equilibrio della famiglia.
Infine Arturo, nei panni di Tom: l’eterna sigaretta e un giubbottino di pelle (i costumi sono di Gianluca Falaschi), è un carico di “cinismo romantico”, di rabbia compressa, di amore e furore che si mutano in una maschera di insopportabile durezza e dolore nella scena finale, quando avanza in proscenio e pronuncia le ultime battute, aspre come una condanna a morte. È una questione di intonazioni, di gioco interpretativo. Gerardo Guerrieri (cui si deve la traduzione del testo) scriveva a proposito di Visconti: «Quante gliene disse alla Pavlova, la sera della prova generale di Lo zoo di vetro: l’attrice s’era scordata tutte le intonazioni». Ebbene, in questo spettacolo crepuscolare, dolente, così sconsolato, le intonazioni non sono mancate.
E se pure si avverte la polvere del tempo, sul presupposto iniziale del testo – chi è una “zitella” oggi? chi se ne preoccupa più? fortunatamente le donne sono andate altrove – e le “metafore” ormai rimandino a ben altro, resta e vibra quel melodramma, quel conflitto interno, interiore, tra desideri e frustrazioni, tra possibilità e sogni, tra quel che avremmo potuto essere e quel che siamo. Lo zoo di vetro, dunque, nella bella produzione di Tieffe Teatro, con le canzoni strazianti di Luigi Tenco, si declina piuttosto su una delle preziose battute dell’autore: è un flusso della memoria, un lento ri-cordare, che vuol dire, poi, ri-dare al cuore quella centralità che ha, che può avere, ogni volta che il passato torna a farsi presente. Il ricordo di volti amati, di gesti fatti, di vestiti messi che oggi sembrano ridicoli, di profumi, di cibi, di parole dette e di quelle non dette, di tutto quel che si è perso e che avremmo voluto (o dovuto) conservare. Ricordi buffi, anche teneri, divertenti, forse commoventi. Come nella scatolina che contiene il minuscolo zoo di vetro di Laura, non rimangono che fossili di vite spese, affannosamente, senza accorgersi del tempo che passa. Poi è subito troppo tardi.
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