Teatro
Nel “Purgatorio” delle Albe la Polis dei cittadini
Sta tornando il tempo della polis. L’ora dei cittadini. Il teatro con le sue intuizioni annuncia sempre i cambiamenti, li fotografa un attimo prima che questi accadano. E, mai, forse come adesso, una delle compagnie più sensibili del nostro Paese, il teatro delle Albe, da sempre cuore nevralgico e punto di incontro di tanta parte della nostra cultura contemporanea, sembra farlo in modo ancora più netto mostrandoci con la consueta e asciutta capacità narrativa la nostra era allo specchio. Accade tutto nel dantesco “Purgatorio” uno degli appuntamenti più caldi della trentesima edizione di uno dei festival migliori della Penisola, Ravenna Festival, andato in scena per due settimane di luglio, dopo un’anteprima unica a Matera, capitale della Cultura 2019. Questo secondo atto, seguito del travolgente e sensazionale “Inferno”, prima cantica andata in scena due anni fa, condivide infatti con quell’esordio, e in tutte le fasi di preparazione, una corale partecipazione di attori presi dalla vita di tutti i giorni. Uomini, donne e giovani, gente di ogni età, cittadini ravennati che hanno risposto alla chiamata pubblica della compagnia per dare vita, dopo una certosina e lunga prova iniziata in sordina mesi addietro, ad un happening unico, un teatro sul campo che li trasforma in comprimari di un atto di coinvolgente forza filosofica, testimoni di una catena di quotidiane illuminazioni. L’alto e il basso, l’umile e il tracotante, il dotto e l’ignorante sono tutti dentro, nelle diverse sfumature dei colori di una umanità che stavolta, ancora più della precedente , sembra prendersi progressivamente lo spazio scenico dilagando ora in modo gioiosamente caotico ora fermandosi con una calma che suggerisce lentezza e riflessione. E’ questa la prima sorprendente fascinazione di un’opera sempre più complessa alla quale hanno lavorato Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, entrambi in scena angelicamente vestiti di bianco: alla maniera di Kantor disegnano le linee, indicano i punti di fuga, danno l’attacco musicale a una orchestra fatta di moltitudini orchestrali. Solisti e cori in un altalenante gioco di rimbalzi e alternanze che moltiplica i punti di ascolto, da inseguire velocemente da un punto all’altro di questo continuo tableaux vivant, come api indaffarate nel suggere il nettare. O note in movimento armonico sul pentagramma di un allestimento che suggerisce più di una volta il melodramma, assecondato dalla puntuale e mai invadente colonna sonora di un compositore di eccellente classe quale è Luigi Ceccarelli, coadiuvato da strumentisti di bella bravura (e da un inappuntabile lavoro dei fonici).
Eppure la liturgia che accoglie il pubblico, dove ciascun spettatore è Dante, assomiglia a quella dell’ “Inferno”. Medesimo è il luogo, la tomba del Sommo Poeta, dove una folla compatta di persone agita lunghi steli di giunco di un verde marino salutando il nuovo atto, aperto tre volte dal suono lungo e misterico di una conchiglia e introdotto dalla lettura di Ermanna Montanari. Il buio è ormai alle spalle. Dante e Virgilio hanno finalmente abbandonato la fossa dell’Ade e sono usciti “a riveder le stelle”. Così canta il Poeta: “Per correr miglior acqua alza le vele/ ormai la navicella del mio ingegno, / che lascia dietro a sé mar sì crudele/ e canterò di quel secondo regno/ dove l’umano spirito si purga/e di salir al cielo diventa degno…”. Più in là ecco i versi chiave che danno l’abbrivio giusto a questo canto di impegno civile. Stanno nella risposta di Virgilio a Catone, interpretato da un energico ed elegante Gianni Plazzi. Dice la Guida nel presentare Dante : “Or ti piaccia gradir la sua venuta:/ libertà va cercando, che sì cara /come sa chi per lei vita rifiuta”… E solo Catone _ che si tolse la vita per non perdere quella libertà politica che Cesare gli aveva tolto _ poteva capire. Ecco il primo gradino di un’ascesa che continuerà per tutto lo spettacolo. Marco Martinelli al megafono rilancia l’invito ad andare ripetendo i versi (“Noi andavamo per lo solino piano/ Come uomo che torna alla perduta strada/ E fino ad essa gli pare ire invano…”: la trasformazione dell’uomo qualunque in uno e cento Dante è avvenuta. Con una dichiarazione politica che immediatamente apre uno squarcio sulla nostra realtà contemporanea anestetizzata dai social, una tivù sempre più opaca e mediocre, con rari scatti di orgoglio e senso civico in difesa della libertà democratica mentre si decifrano all’orizzonte inquietanti segni di nuovi fascismi.
Il corteo si compone e avanza come un fiume placido e tranquillo insinuandosi nei vicoli della vecchia città, guidato da un trombettista che intona il gregoriano “Victimae Paschalis Laudes”, canto di resurrezione che si alterna ad altri improvvisi canti lanciati come fiori da cantori affacciati ai balconi delle case incrociate lungo il cammino. Ed è un pesante cancello, quello dell’Ignis Purgatorium che si schiuderà per svelare una sinuosa linea di verde e apparizioni, tra gli alberi e le finestre di edifici. L’opera trova il secondo e più conturbante livello. Quello che dà il senso a un racconto da seguire con gli occhi e il cuore. La poesia diventa teatro con uno scambio rigoglioso tra versi e immagini, mentre i quadri sonori e quasi metafisici suggeriscono linee di intreccio e trame con il presente. Il tutto avanza con un ritmo sostenuto, senza buchi e sfasature, macchina ad ingranaggi ben oliata e controllata a distanza ravvicinata dalle due guide che lasciano ampio e calcolato spazio al racconto e alle rivelazioni. Folgorante la prima che mostra una lunga teoria di donne velate disposte sui gradini di una scala antincendio. Sono le donne uccise dai mariti, padri, amanti e fratelli, introdotte dai versi di Pia de Tolomei recitati da Mirella Mastronardi. E da questo momento in poi viene il tempo degli attori delle Albe figli di un sapere teatrale del nostro tempo. Da Roberto Magnani che avvolto in un ampio cappotto militare disegna romanticamente la figura di Manfredi di Svevia, pentitosi dei peccati in punto di morte a Massimiliano Rassu, l’altro pentito Bonconte. Matteo Gatta vestito come Joseph Beuys è Oderisi da Gubbio mentre Laura Redaelli è Sapia con una corona di spine. Alessandro Renda recita Marco Lombardo e Marco Montanari il corifeo degli iracondi. Costoro lasciano il posto nella cornice degli avari a Alessandro Argnani nel ruolo del papa Adriano V e a Luigi Dadina autore di un indimenticabile cammeo nei panni del re Ugo Capeto, personaggio illuminato obliquamente di luce shakespiriana.
Ma il vero motore di questo “Purgatorio” è la forza dei temi evocati. Pesanti come macigni sono gli stessi all’ordine del giorno della nostra umanità. Sono tempi di Antropocene, come gli scienziati naturalisti Paul Crutzen ed Eugene Stoermer hanno voluto battezzare la nostra epoca in cui le orme dell’uomo sono rintracciabili in ogni angolo della Terra. Anche quello più remoto. Era geologica iniziata con la rivoluzione industriale e proseguita con l’uomo intento a divorare voracemente il pianeta dove vive. Un sistema bloccato dalla dipendenza storica di carbone, petrolio e gas ha causato in epoca di globalizzazione il surriscaldamento totale del pianeta, con una netta inversione della sua natura. E’ inevitabile: il progressivo avanzare del cambiamento climatico porrà l’uomo davanti a scelte non più rinviabili. Eppure, nonostante il count down sia già partito, l’allarme non sembra ancora entrato nel nostro orologio biologico. Un dramma che avanza nel silenzio quasi totale di politica e cultura, come testimonia il lucido saggio “Fuori controllo” (edizione Einaudi) dell’antropologo norvegese Thomas Hylland Eriksen. Accade che aspiranti re travicelli siano impegnati solo a cacciare indietro barche di migranti disperati, lucidando stivali e sognando improbabili passi dell’oca mentre l’umanità vira verso il declivio che porta alla sua fine.
Puntuale è quindi in “Purgatorio” la rilettura dedicata alla geniale figura dell’artista Joseph Beuys, felice intuizione quella di legarla a Dante. Il primo è propugnatore di un’arte sociale che si estende ad ogni sfera di attività umana e in fecondo rapporto di scambio con la natura, fino alla dichiarazione che “ogni uomo è un artista”, “Every Human Being is an Artist”. Nel quarto libro del “Convivio” Dante Alighieri _ come osserva Marco Martinelli nel suo saggio “Nel nome di Dante” (edito da Ponte alle Grazie) _ nel motivare la sua scelta di impegnarsi per il “bene comune” ci racconta “come il giovane appassionato d’Amore si sia trasformato in Araldo della Rettitudine. Dell’agire bene, per cercare il bene di tutti”. Per trovarlo occorre spazzare via errori come quello relativo alla “nobiltà”. La “pessima confusione del mondo” dice Dante nasce dal non capire che “la vera nobiltà è seminata in noi dalla natura”.Tutti potenzialmente siamo nobili. Nella cornice dei Superbi, oasi tra gli alberi che riporta ai primi giorni di scuola, si resta assisi in sediole davanti a banchi odoranti di arbusti campestri e girasoli. Mentre la luce del giorno scivola via smorza anche il frinire delle cicale. Una cattedra e una enorme lavagna è lo spazio da dove Ermanna Montanari esorta: “Qui troverai la strada per scendere/ dal tuo trono di carta/ dalla tua vasta superbia/ Qui troverai la strada per sciogliere l’intricato nodo/ del tuo santo scontento”.
E la lezione è quella del pittore Oderisi da Gubbio, vestito come Joseph Beuys, una volta famoso fino a Parigi. “Ma la fama nel mondo _ ricorda Oderisi _ è ben poca cosa, un soffio di vento che ora va e ora scompare …. Amore è ciò che conta… non quello che si dice di noi nel mondo”. Ed ecco i suoi assistenti abbigliati come il carismatico artista tedesco leggere le sue frasi riprodotte su manifesti appesi nei muri. Una su tutte: “L’umanità si trova oggi in una fase di estrema pericolosità ed occorre che in ciascuno di noi si sviluppino quelle forze che ci consentano di prevedere attraverso la creatività. Mi riferisco al senso di “ciò che verrà” e “ciò che sarà rappresentativo” per la cultura del secolo a venire. La cultura del prossimo secolo sarà connotata, a mio avviso, dal senso del futuro”. Titoli di coda con un delizioso coup de theatre: sulla grande lavagna si anima il volto di Totò in “Uccellacci e uccellini” . In vesti francescane, nel film di Pasolini assieme a Nino Davoli, canta “Laudato sii mio Signore” . Sale la musica, con impennate elettroniche, suonata dal vivo da un impeccabile quartetto per introdurre ad altra aula popolata da cittadini ravennati di ogni età, seduti nei banchi di una scuola, con maglie colorate e disegnati da immagini riprese dai quadri di Matisse. E’ il coro dei “vermi e delle farfalle” che declama le rime di Dante nelle tante lingue dell’emigrazione dispensando carezze. Sono poi i versi dispersi “del Purgatorio dei Poeti, della parola che mette le ali!”. Quelli di Walt Whitman, John Donne ed Etty Hillesum che ricordano chi siamo e dove andiamo. Su tutte le parole taglienti di Majakoskij (“Risplende il sole nel buio/Ardete stelle di notte/Ghiaccio sotto di noi/ Spezzati”).
Una grande carta geografica con l’immagine dell’Italia rovesciata domina accanto a un altro coro dei cittadini, quello degli Iracondi (“Ah! Serva Italia! / di dolore ostello/Nave senza nocchiere in gran tempesta/Non donna di province../…ma bordello”) dove prende corpo il racconto di Marco Lombardo. Qui è il cuore nevralgico della polis. Del governo e della corruzione. Dice Lombardo: “Ben puoi veder/ che il mal governo/ è la cagion che ‘l mondo ha fatto reo/ e non natura che ‘n voi sia corrotta”. Lasciati gli accidiosi che corrono verso la sommità del monte e poi gli avari, passati attraverso le fila dei lussuriosi che reggono in mano una fiaccola, il cammino è giunto alla fine. Quello che una volta era un giardino ora è un parcheggio dove quattro icone di Greta Thunberg, cerata in giallo e capelli raccolti a treccia, sono intente a piantare l’ulivo, la palma, la rosa e il limone. Quello che una volta era l’Eden, finita l’età dell’oro, è un paradiso terrestre da difendere. E’ la nostra Terra che va difesa da un’economia di rapina, da logiche di sfruttamento. Una aiuola avvelenata di plastica e cemento. Le piccole Greta rimproverano che il tempo è scaduto: “Voi non avete più alibi e noi non abbiamo più tempo”. Non ci sono più oasi o quadretti bucolici da ammirare. Forse il mondo potrebbe essere salvato dai bambini ma comunque c’è da fare con urgenza anche la nostra parte.
Come sempre le Albe non hanno mezze verità. Parlano chiaro e dritto per chi vuole ascoltare e aprirsi. Lo faranno ancora con questo “Purgatorio” che esce dai confini per andare in Romania a Timsoara, in America nel Bronx di New York e probabilmente, in un tardivo atto di riconciliazione a Firenze. Questo “Purgatorio” prepara già al prossimo “Paradiso”. Ha già dentro di sé il germe della rivoluzione umana. Dante, dove lo ha lasciato Virgilio troverà l’altra guida: l’amata Beatrice. Il “Purgatorio” delle Albe lancia una pietra nello stagno della nostra cultura da troppo tempo poco ribollente di idee e assetata di buona energia. È stato un atto anche gentile certo, ma non per questo ha evitato di fustigare. Anzi. Il coraggio non è dote che difetta alle Albe che, per inciso, hanno fatto operazione di rimarchevole coraggio culturale: hanno contribuito a sdoganare Dante togliendolo dal limbo in cui giaceva da troppo tempo. E anche per questo dovremo esserne grati. Che Dante sia dotato di vocazione drammatica è ampiamente risaputo, ma è giusto e bello citare in chiusura come i due autori Martinelli e Montanari richiamino alla memoria il parere di un erudito veneziano, Gianbattista Brocchi che nel 1797 nel suo “Lettere sopra Dante” ebbe a scrivere: “Io non dubito che Dante si sarebbe alzato al paro di Eschilo o di Shakespeare se ai tempi suoi fosse stata in voga in Italia l’arte del teatro e ch’egli l’avesse voluta coltivare”.
La notte è ormai giunta. Il viaggio nel “Purgatorio” è terminato. Dante è pronto per salire in Paradiso.
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