Teatro
Napoli ancora tra miserie e nobiltà
C’è anche una Napoli “normale”, che non si arrende alle sparatorie, che non si deprime in discussioni tra potentati di De Magistris o Saviano, che non si lascia andare al grigiume prevalente dell’ex Belpaese che siamo. C’è una Napoli colta, viva, attenta, ancora ospitale: dove non hai la sensazione di essere sempre fregato, ma ben accolto.
C’è una Napoli che sa sopravvivere alle luci e alle ombre, alla propria misera e alla propria nobiltà.
Chissà, forse Arturo Cirillo, quando ha proposto il celebre testo del “Commendatore Scarpetta” – come lo chiamava Silvio d’Amico – al Teatro Stabile di Napoli non pensava a quanto lo spettacolo sarebbe stato politicamente e socialmente calzante. Perché Miseria e Nobiltà arriva al Teatro San Ferdinando, il teatro che fu di De Filippo, durante e subito dopo le feste, come un momento di riflessione molto più articolato e complesso di quel che sembri.
Sul lavoro, accolto con grandissimo successo da pubblico e critica, molto è stato detto e scritto (mi limito qui a rimandare all’articolato saggio di Alessandro Toppi), ma mi piace aggiungere qualche considerazione da spettatore che, ormai da tanto tempo, segue assiduamente il percorso dell’attore e regista.
Devo dire che Arturo Cirillo sta raggiungendo una maturità e profondità creativa notevolissima. Complice il sostegno produttivo dello Stabile, ha infilato una doppietta di gran livello: prima un Liolà fresco e innovativo, ora questo Miseria e Nobiltà da cui fa emergere temi, sentimenti, rimandi sorprendenti.
Dell’opera di Scarpetta sappiamo tutto, non fosse altro perché si è sedimentata nell’immaginario collettivo grazie al celeberrimo film di Mattoli con Totò.
Recentemente anche il bravo Michele Sinisi si era cimentato in una versione “pan-meridionale” (ne scrivevo qui), spingendo bene e molto sull’acceleratore del meccanismo comico e farsesco. Con Cirillo scopriamo sfumature altre, diverse.
Per un critico come Roberto De Monticelli, Miseria e nobiltà era il “capolavoro” di quel «grande attore comico e notevolissimo commediografo» che fu Eduardo Scarpetta: ma non si tratta solo di una farsa, di una pochade, ma di un’opera che svela – oggi più che mai – un retrogusto amaro, amarissimo, addirittura drammatico.
La maschera di Don Felice Sciosciammocca, erede efficace di Pulcinella, diventa paradigma umano, umanissimo, anche della Napoli contemporanea.
Cirillo ne coglie le infinite sfumature ma sceglie di scavare in particolare su due temi: la fame, ossia la povertà che si fa confronto di classe; e la paternità, elemento sulfureo e sotterraneo della pochade che supera il gioco delle agnizioni e dei mascheramenti per farsi dolente consapevolezza.
Lo spettacolo è raffinatissimo ed elegante, magistralmente interpretato dal gruppo intero – come ormai ci ha abituato il regista, capace di guidare gli attori in prove di grande adesione emotiva e tecnica – di grande verve comica. Eppure lascia un senso di amaro, un groppo in gola: perché le vicende di quei poveracci disposti a tutto pur di mangiare e sopravvivere, di quegli amori contrastati e innocenti, di quei desideri che non si appagano mai, fa da specchio stridente alla città come la viviamo ogni giorno.
C’è tutta Napoli in quelle vicende, a fine ottocento come a inizi duemila: i bassi dei quartieri spagnoli e Posillipo, quelli che si arrangiano per tirare a campare e gli arricchiti, i truffatori e i truffati, gli ingenui e i furbi, i poeti e i cialtroni.
Il Miseria e nobiltà di Cirillo è pieno di invenzioni, di energia e di mesta nostalgia: secco e aguzzo, nell’eleganza formale dell’allestimento (le belle scene di Dario Gessati, i costumi concettuali e efficaci di Gianluca Falaschi, le luci taglienti di Mario Loprevite e le ottime musiche di Francesco De Melis) la commedia diventa una disincantata, profonda descrizione della natura umana. C’è, nella dinamica della migliore farsa o del grande teatro comico, da sempre, questa forza: ossia la insita, infinita, squisita capacità di svelare le contraddizioni dell’uomo, di coglierne le fragilità e le meschinità, le ambizioni e i fallimenti. E Cirillo, pur giocando con gli stilemi del ridicolo, tiene le redini di un affresco mai futile, anzi sempre sul punto di rompersi in un pianto: non tanto per compassione, quanto per empatia, addirittura solidarietà. Non a caso, forse, si ritaglia il ruolo dell’ex cuoco arricchito dal cuore d’oro, don Gaetano: è il testimone e il deus ex machina, è la voce narrante che decreta il lieto fine che lieto non è. Resta, infatti, la miseria, resta la differenza sociale, resta la fame per tutti gli altri, addirittura la solitudine di quegli esseri umani che si stringono, disperati, in un consorzio familiare segnato dal fallimento.
Anche se – e qui entra il secondo tema portato alla luce – si ricompone ariosamente il rapporto padre-figlio. Cirillo ricorda, nelle note di regia, quanto e come questa commedia sia stata il banco di prova per i figli d’arte, ma nella sua edizione la questione diventa di sublime e commovente verità. Così l’abbraccio finale tra Peppiniello e Don Felice è emblematico, un gesto che racchiude e travalica lo scontro generazionale, la (ir)responsabilità dei padri, la rivolta dei figli.
Del nutrito cast si è fatto cenno: ma vale citare certo quel gigante, appartato e solitario, che è Tonino Taiuti, nel ruolo di Sciosciammocca; poi Giovanni Ludeno, ottimo Pasquale, la travolgente Milvia Marigliano come “antipatica” Luisella e la efficacissima Sabrina Scuccimarra come Concetta. Voglio menzionare anche Valentina Curatoli, attrice che conosciamo da tempo, che qui svela grazia e ironia. Con lei, bene Rosario Giglio e Gino De Luca (in doppi ruoli), l’elegante e soave Giorgia Coco, la fantastica Viviana Cangiano, e Roberto Capasso, Chrstian Giroso, Emanuele D’Errico.
Allo Stabile napoletano il merito di promuovere simili produzioni: sarebbe bello che non si esaurissero tra Natale e capodanno, ma avessero un respiro – e un giro – ulteriore.
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