Teatro
Milo Rau e la tragedia dell’Impero
Due parole sono il fulcro attorno cui gira il nuovo spettacolo di Milo Rau presentato al Festival Contemporanea di Prato.
Impero e Tragedia, o meglio Empire e Tragoedia, in inglese e in greco. Sono queste l’alpha e l’omega, il simbolico riferimento al reale, al presente, al senso profondo della creazione firmata dal geniale regista svizzero. Empire è il titolo: evoca, forse indirettamente, l’opera di Toni Negri e Michael Hardt – non a caso, quel libro del 2002 aveva come sottotitolo: “il nuovo ordine della globalizzazione” – ed è lo stato di fatto, il crogiuolo socio economico che fa da contesto necessario e soffocante della narrazione. È all’interno di questo impero occidentale che ci si confronta. Quella di Milo Rau è una dichiarazione sistematica, di intenti: hic Rhodus, hic salta! sembra dire il regista. Non ci sono vie di fuga di fronte all’assurdità del regime di unimpero diffuso e nascosto, violento e implacabile.
Poi c’è la tragedia, ovvero tutto quel che vi è sotto, il “verminaio” avrebbe detto Gadda, che è il problema, che è la vita: le sofferenze, le tribolazioni, i viaggi, le fughe. Ecco, Empire narra di fughe, di esili, di abbandoni, di privazioni, di violenze. Di tutto ciò che svela la faccia nascosta dell’Impero.
La scena – allestita al Teatro Fabbricone di Prato – è la facciata di una casa già distrutta, scurita di fuochi, colpita e segnata come tante di quelle che vediamo, distrattamente, in tv. Ma basta andare non troppo lontano – che so, a Sarajevo – per trovare ancora quei palazzi segnati, quegli edifici, una volta “borghesi” e silenziosamente dignitosi, ormai distrutti, colpiti, sfregiati dalle tante guerre.
I quattro attori in scena fanno ruotare la facciata, subito, ad inizio spettacolo, spingendo quasi alla rimozione, all’immediato oblio, e svelano l’interno della casa, ossia una cucina-camera. La sensazione è buffa: una cucina calda, accogliente, piena di cimeli, ricordi, fotografie appese. Come ce ne sono tante: potrebbe essere orientale o occidentale.
Ed è la cucina – l’ha fatto notare Attilio Scarpellini in una recensione radiofonica per Radio3Rai – che si impone come luogo del racconto e del ricordo. Attorno al tavolo, semplicemente. Possiamo quasi immaginare le briciole di pane o il bicchiere mezzo pieno. Là, seduti, si parla.
Sono quattro gli attori, straordinari per essenzialità, rigore, presenza: la splendida Maia Morgensten, Ramo Ali, Rami Khalaf e Akillas Karazissis. Non sono solo interpreti e narratori, quanto testimoni, possibili e forse reali, di vite vissute, di esistenze segnate dalla violenza dell’Impero.
Morgenster parla rumeno, è ebrea, ha subito il comunismo di Caucescu, contro cui si è ribellata, è diventata una attrice famosa: ricorda il suo lavoro con quel gigante che fu Theo Anghelopulos e parla di come ha interpretato il ruolo di Maria, lei ebrea, nel filmone di Mel Gibson sulla Passione. Ne ricorda le conseguenze, gli insulti, le perplessità dei giornalisti che la intervistavano. Ma il suo dolore è aver lasciato troppo a lungo il figlio solo a casa.
Ramo Ali, il viso aperto dai tratti mediorientali, è curdo, parla curdo in uno spettacolo per la prima volta in vita sua. Racconta l’infanzia difficile e dolcissima, con il padre severo e la madre affettuosa, poi racconta la prigionia nelle carceri dure di Siria. Rami Khalaf, con un sorriso lontano, evoca la famiglia numerosa, poi le proteste contro il regime di Bashar Al-Assad, la fuga in Europa, il lavoro in una radio, il disincanto, il dolore, le strazianti fotografie dei 12mila morti che ha dovuto vedere per cercare il viso del fratello. Infine Akillas Karazissis, greco di Odessa, fuggito dal regime dei Colonnelli, approdato in Germania, diventato attore quasi per caso, che con grande nostalgia racconta del padre, della casa a Salonicco, del vento.
Le lingue si mescolano, si sovrappongono: i racconti sono detti ad una telecamera, che inquadra il volto del singolo attore chiamato a evocare la sua storia. La proiezione di quel primo piano strettissimo, in bianco e nero, è su uno schermo che sovrasta lo spazio scenico. Chi parla sta fermo, immobile, mentre lo scandaglio della telecamera (controllata a turno da un altro attore) entra nell’intimità dell’attore o dell’attrice. I piani narrativi, dunque – come è anche nello stile della Schaubhüne di Berlino che coproduce lo spettacolo di Rau – si raddoppiano: da un lato la presenza calda, teatrale e viva, del performer attore; dall’altro l’immagine riprodotta, la ripresa in diretta del volto, ossia il video che sublima la narrazione a documento, a testimonianza.
Con grande rigore e intensità assoluta, senza cedimenti o retorica, i quattro interpreti ricordano, suggeriscono, spiegano. E portano il pubblico ad affondare nella melma della realtà recente e passata. Senza sconti, sbattono in faccia ad ogni singolo spettatore storie sulle quali, troppo spesso, chiudiamo gli occhi o siamo addirittura complici. Lo spettacolo è uno stationendrama, scandito da cinque macrocapitoli: teoria delle origini, esilio, ballata dell’uomo comune, sul lutto, ritorno a casa. E preme sottolineare quell’“uomo comune” che diventa, davvero, metro di tutto: loro, gli attori, prima e indipendentemente dall’essere i protagonisti dello spettacolo, si riappropriano dell’essere uomini e donne comuni, la loro storia è quella di tanti altri come loro. Hanno l’onere e l’onore di farsene testimoni ascoltati, rispetto ad altri condannati al silenzio o al non essere né uditi né, tantomeno, compresi.
Ma tutto ciò non basta, allo spettacolo, perché di spettacolo si tratta.
Con le magie intelligenti cui ci ha abituato Milo Rau, Empire a un certo punto – quando tutto sembra insostenibile, inconcepibile – vira, si apre, respira di mito e leggenda. È la tragedia che entra prepotente in scena, con il suo portato di storia e immaginario comune. Dapprima come suggestione (la sublime evocazione di Lo sguardo di Ulisse, il capolavoro di Anghelopulos, aveva già dato un respiro altro) poi come vero e proprio dialogo. Karazissis in greco e Morgensten in rumeno intrecciano un dialogo di Medea: ed ecco che tutto si fa chiaro, che tutto acquista rinnovato senso. La donna che viene da lontano, la straniera, la perdita dei figli, il despota, il sacrificio, il delitto: sono momenti della Medea euripidea, ma il mito si riverbera nel presente, con tutta la sua aspra violenza.
La tragedia è qui, nel cuore dell’Impero.
Milo Rau, fondatore dell’International Institute of Political Murder, prosegue dunque la sua ricerca nel teatro politico e civile. Ne abbiamo amato alcuni lavori – ricordo di aver visto Hate Radio a Venezia, Compassion a Belgrado, Five Easy Pieces a Roma – fatti di scabra e essenziale teatralità. Con i suoi attori, sempre straordinari, rivolta e rinnova i codici della scena, sottraendoli ad ogni fasto eppure tenendo in vita l’essenzialità della rappresentazione, di una “finzione” che sa attraversare intensamente i territori aspri della realtà. Non fa sconti, non c’è retorica, non emette giudizi: brechtianamente, lascia al pubblico il compito, non facile, di tirare le somme. Gran merito, dunque al festival Contemporanea di Prato (e al suo direttore, Edoardo Donatini) di averlo riportato in Italia. A Berlino, Empire è uno spettacolo da “stagione”, non un evento “straordinario”: e vedremmo volentieri più spesso Milo Rau, a dare una sveglia alle stagioni, troppo spesso sonnacchiose e compiaciute, dei nostri teatri.
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