Teatro

«Mia sorella è più virile di me!», addio a Paolo Poli

26 Marzo 2016

«O cosa vuoi che ne sappia io delle donne?» mi rispose esasperato, nel suo inconfondibile accento fiorentino, alla mia ennesima domanda sull’universo femminile.

Con un ultimo sberleffo, se n’è andato il giorno di Venerdì santo, Paolo Poli. Voglio immaginarmelo con uno di quei suoi sgargianti abiti di scena, con le scenografie di Lele Luzzati e con un coro di boys che intona qualche canzoncina maliziosa. Paolo Poli, ovvero la genialità irriverente, maliziosa, argutissima è (difficile scriver “è stato”) un’icona del teatro italiano.

Sempre elegante, sorridente, coltissimo, ingordo di quella cultura popolare, minore, tradizionale del nostro paese bigotto e moraleggiante. “Primattrice ”(ha sempre parlato di sé al femminile), Poli è stato artefice di un teatro libero, e libertino.

Gay dichiarato, privo di condizionamenti, ha combattuto con intelligenza una battaglia per rendere meno retrograda questa nostra Italia. Chissà che direbbe quell’Adinolfi, e che ne direbbero gli alfieri ottusi della “famiglia tradizionale” di questo genio che, in ogni suo lavoro, metteva al centro quel femminile che lui interpretava meglio di chiunque altro/a.

Sciantose o educande, monache (di Monza) o brillanti giornaliste, virago o donzellette: dalla fine degli anni Cinquanta, Poli le ha interpretate tutte. Sempre sul filo dello scandalo, dell’indecenza, del sottile (ma neanche troppo) doppio senso, Paolo Poli ha giocato con il travestimento.

Assieme ai suoi sodali, primo fra tutti lo scenografo Lele Luzzati che dava al mondo di Paolo una connotazione di fantasiosa, giocosa e poetica irrealtà, e dalla coautrice Ida Omboni, Paolo Poli ha attraversato il secolo, incarnandone pulsioni e ardori, miti e icone. Ma a proposito della sua collaborazione con Luzzati, Poli la liquidava così: «Io gli davo le indicazioni, lui faceva come gli pareva».

Poco tempo fa, all’uscita di un prezioso volume dedicato proprio a Poli e Luzzati (Il novecento è il nostro secolo, scritto con mano felice da Marina Romiti ed edito da “Maschietto Editore ” di Firenze), Natalia Aspesi, nell’introduzione, scriveva che il libro «riesce a rivelare tanto di più di quello che sul palcoscenico e in molte altre interviste ci è stato raccontato: una cultura artistica profondissima, un sapere straordinario, una vita fatta di orgoglio, e sincerità, di passione e rettitudine, di solitudine e ombra, ma anche di profonda, taciuta malinconia. Una vita ricchissima, che è il racconto più nostalgico e raffinato del Novecento».

Chi aveva il piacere di incontrarlo, di parlargli, trovava in Poli un conversatore affabile, coltissimo, che sul filo dei ricordi, aveva perfide frecciatine (e pettegolezzi) per tutti. Da Mussolini o Maupassant, dalla legge Merlin a sant’Agostino, da Jarry e Schoenberg a Brigitte Bardot e all’eterno alter ego Carmelo Bene. Con quel gusto tagliente di cui si era fatto paladino, Poli smascherava ipocrisie, perbenismi, convulsioni e contorsioni del presunto genio italico, riportando tutto “a terra”, al gusto greve delle canzonette, o meglio al nudo di quanto accade sotto le lenzuola. Era un modo, il suo, di parlare di una Italia più vera, certo meno presuntuosa.

Proprio come i suoi spettacoli: affreschi capaci di tessere assieme l’alto e il basso, il comico e il poetico, il classico e il popolarissimo.

Ma – ricordava ancora Aspesi – «il suo talento è sempre stato quello di diventare nei suoi spettacoli una signora (santa Rita, Caterina de’ Medici, Carolina Invernizio, la Vispa Teresa, la Nemica) senza mai sembrare un travestito: ma regalandoci la sublimazione della donna, se necessario molto bella, e talvolta, solo quando indispensabile al personaggio, un po’ grottesca».

E nella felicità di quegli spettacoli “all’antica”, fatti coi bei costumi, le quinte dipinte, con quei boys che cantano e ballano, Poli sempre e comunque restava fedele a se stesso: Gozzano, Savinio, Apuleio, Swift, Dumas, Satie, Palazzeschi, Diderot, Wilder, Ortese, Pascoli erano solo spunti, modi per parlare di sé e del mondo. Senza risparmiare cattiverie, gioconde e invereconde invettive all’indirizzo, soprattutto, dei cosiddetti benpensanti.

Consentitemi un ricordo: molti anni fa, al Teatro Due di Parma, dovevo condurre un incontro con il pubblico in occasione di uno spettacolo di Poli. Lui mi convocò, un’oretta prima dell’orario stabilito, per chiacchierare, per conoscerci, mostrandosi – giustamente – diffidente nei confronti di uno sconosciuto giornalista. Di tanto in tanto faceva domande apparentemente svagate, ma insidiose: «O come si chiama quel pittore che faceva tutte quelle bottigline?» e io, timido: «Morandi».

E lui: «Ah già…» come se l’avesse ricordato grazie a me, e dopo poco: «o come si chiamava quell’altro, che faceva le mucche maremmane?» e io, diligente: «Fattori». Risposi bene su Rosai, ero impreparato su De Pisis, ma ho retto su Rosso Fiorentino e Savinio. Solo a quel punto, passato l’esame (anche se non a pieni voti), Poli mi accettò come intervistatore.

Poi, quando gli feci quella domanda sulle donne, mi rispose sfrontato: “O cosa vuoi che ne sappia io delle donne?”. Era semmai da chieder lumi alla sorella Lucia, anche lei grande attrice. «Mia sorella è molto più virile di me», amava ripetere sornione.

Il pubblico rideva dei suoi lavori, sempre sorpreso, spiazzato: a volte ci voleva qualche istante per capire i doppi e tripli sensi, gli ammiccamenti, le libere interpretazioni dei testi.

Poli ha donato quel gusto malizioso e feroce di guardare al mondo, quel non prendersi mai troppo sul serio – in epoca di grandi “guru” e di serissimi “maestri” – quel giocare al teatro facendone una bellissima, commovente, cialtronissima festa. Lui che amava il kitsch involontario della compagnia D’Origlia-Palmi, aveva in dote una naturale “metateatralità”, ovvero la capacità di “mostrarsi” mentre, ancora e sempre, giocava.

Rendendo più bella, e più divertente, questa Italietta.

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In copertina, Paolo Poli (2005),  tratta da Flickr, licenza CC

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